Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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in guerra per uno stato intermedio, che a lui non s'appartenesse, tra i suoi stati di Napoli e di Milano. Inoltre voleva e comandava, che i porti dello stato pontificio fossero, e restassero serrati agl'Inglesi. Alle quali intimazioni aveva il pontefice risposto, oltre che se Napoleone si aveva preso Napoli, Toscana e Milano, non era certamente colpa del papa, che nelle guerre anteriori tra Francia, Austria e Spagna lo stato pontificio era sempre stato intermedio senza che queste potenze se ne dolessero, e prendessero pretesto per torre lo stato ai sovrani di Roma, e nel caso presente la interruzione non sussisteva, essendo lo stato Romano occupato dai soldati dell'imperatore, che con ogni libertà, e con intollerabile aggravio della camera apostolica andavano e venivano dal regno d'Italia al regno di Napoli, e così da questo a quello: che quanto al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della concordia, all'imperatore.

      Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse manca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello, che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e d'Italia e del mondo. Perchè poi la forza fosse ajutata dall'inganno, accompagnava le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la potestà secolare. Non esser buoni i preti, diceva, per governare: immersi nei loro studj teologici non conoscere gli uomini: avere Roma abbastanza turbato il mondo: non comportare più il secolo le Romane usurpazioni; avere i lumi fatto conoscere a quale stima debbano esser messi i decreti del Vaticano: ad ognuno oggimai esser noto, quanto assurda cosa fosse il mescolare l'imperio col sacerdozio, il temporale con lo spirituale, la corona con la tiara, la spada con la croce: avere Gesù Cristo detto, che il regno suo non era di questo mondo: non dover essere di questo mondo il regno del suo vicario: pel bene della cristianità, non perchè vi seminassero discordie e guerre, avere Carlomagno dato ai papi la sovranità di Roma: poichè ne volevano abusare, doversi la donazione annullare: non più sovrano, ma solamente vescovo di Roma fosse Pio: a questo modo, e nel tempo stesso provvedersi ai bisogni della religione ed alla quiete universale. Così Napoleone si era servito della religione contro la filosofia per farsi imperatore, poi si servì della filosofia contro la potenza pontificia per farsi padrone di Roma, stimolando a vicenda, secondochè le sue ambizioni portavano, i preti contro i filosofi, i filosofi contro i preti. Prevedendo che un gran numero di fedeli in Francia, abbracciando la giustizia della causa del pontefice, avrebbero sentito mal volentieri le sue risoluzioni contro di lui, e che le avrebbero chiamate persecuzione, parola di molta efficacia fra i cristiani, si voltava a lusingare secondo l'arti sue, i Francesi, con pruovarsi di accrescere la dignità e l'autorità della nazione nelle faccende religiose. Pensava che i Francesi, avendo il predominio temporale, avrebbero anche amato lo spirituale. Perciò instantemente richiedeva, anche colla solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa, che riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti cardinali, quanti bastassero, perchè il terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali Francesi. Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi: se ricusava, avrebbe paruto alla nazione Francese che egli le negasse ciò, che per la sua grandezza credeva meritarsi. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda, che vulnerava la libertà della Chiesa, ed offendeva la sua più intima constituzione: a chi non era noto, essere i cardinali la più principale, e la più essenzial parte del clero Romano? Il primo dover loro essere il consigliare il sommo pontefice. A chi appartenersi, a chi doversi appartenere la elezione degli uomini atti a tanta dignità, atti a tanto carico, se non a colui che da loro debb'essere consigliato? Hanno i principi della terra i loro consiglieri, da loro eletti; alla sola Romana Chiesa, al solo Romano pontefice fia questa facoltà negata? Essere i cardinali non solamente consiglieri, ma ancora elettori del papa. Ora quale libertà poter essere nella elezione, se un principe secolare un numero sì grande d'elettori potesse nominare? Se a Napoleone si consente, gli altri principi non la pretenderanno eglino? Non sarebbe allora il pontefice Romano posto del tutto in balìa dei principi del secolo? Convenirsi certamente, che di ogni cattolica nazione siano eletti cardinali, ma la convenienza non esser obbligo: sola norma, sola legge dover essere al papa il chiamar cardinali coloro, che più per virtù, per dottrina, per pietà risplendono, di qualunque nazione siano, qual lingua parlino. Sapere il pontefice, che il suo rifiuto sarebbe volto dai malevoli a calunnia, come se il santo padre non avesse nella debita stima il clero di Francia; ma chiamare Dio e gli uomini in testimonio de' suoi affetti diversi: conoscergli il clero stesso, conoscergli l'imperatore, conoscergli il mondo, che già vedeva sedere nel sacro collegio, oltre due Genovesi ed un Alessandrino, sei cardinali Francesi; un altro dotto e virtuoso prelato volervi chiamare; di ciò contenterebbesi chi contentabil fosse; ma non poter il santo padre contentar altri di quello, di cui non si contenterebbe egli stesso.

      Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma il rappresentavano.

      L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato, e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale, segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa! Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure l'importanza del fatto, non fece parola.

      Gli oltraggi al papa si moltiplicavano.