Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per esecuzione del decreto.

      Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

      Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.

      Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.

      Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato.

      Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi.

      La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene.

      Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni