Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni. Massimo d' Azeglio

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Название Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni
Автор произведения Massimo d' Azeglio
Жанр Языкознание
Серия
Издательство Языкознание
Год выпуска 0
isbn 4064066070090



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contro il numero. Quando conobbe affatto disperata la causa del suo cliente saltò di nuovo in mezzo facendosi far largo ed urlando come uno spiritato.

      —Zitti giovanotti, fermi tutti, e sentite se vi va a pelo questa. Mattiamolo in una bara e facciamogli il mortorio attorno per Roma co’ ceri; chi sa trovandosi a questi termini, e vedendo che bel gusto sia stare all’altro mondo gli potrebbe uscire il ruzzo dal capo.—

      S’udì uno scoppio di voci discordi, che tutte insieme approvarono, schernirono, rifiutarono il partito. Alla fine però la maggior parte sperando trovar materia di ridere in questa mascherata, e sedotti dalla stravaganza del pensiero stabilirono s’eseguisse.

      In un momento furon trovati i ceri, la bara, i paramenti neri, le cappe dai battuti, e fu messa insieme a furore questa pazza compagnia, che tosto uscì di chiesa col povero vecchio stesso nel cataletto e s’avviò per Banchi.

      Vedevi uno colla pianeta alla rovescia, un altro col piviale, e la spada cinta di sotto glielo teneva, colla punta, alto da terra tre palmi: Fanfulla con una granata che intingeva in una secchia piena di vino, e che adoperava a uso d’asperges su quanti incontrava, precedeva il corpo: facce, poi, che Dio ve ne scampi sempre: femmine tra mezzo d’aspetto diabolico, peggiori degli uomini. Udivi un cantar lungo più ululato, che canto, col quale voleano imitare quello de’ preti: poi chi rideva, chi urlava, chi faceva il verso di qualche bestia, chi cacciava fischi, chi dava fiato ad un fiasco vuoto, chi percuoteva insieme padelle e rami da cucina, chi cantava canzonaccie da postribolo e tutto in una volta un ferir di voci divenute rauche a forza di bere e d’urlare, un miscuglio di parole tedesche, italiane e spagnuole, e d’altre lingue, chè in quella turba v’era d’ogni gente, d’ogni generazione d’uomini.

      Questa canaglia girò così molte ore per Roma facendo baccano, ed a notte avanzata tornò in S. Giovanni.

      Deposta la bara, dissero al cardinale:

      —Su, messere, alzati e discorriamola.—

      Ma non era più in loro mano il poterlo tormentare. Il vecchio non avea retto a tanto disagio, ed era spirato per istrada.

      Fanfulla alcuni giorni dopo nel passar presso al portone di S. Spirito per andar a mutar le guardie venne ferito nel capo da certi rottami che le artiglierie di Castello aveano staccati dalle mura vicine. Giunse in termine di morte, e guarì a stento molto tempo dopo che l’esercito per l’accordo fatto da papa Clemente era uscito di Roma carico delle sue spoglie.

      La cura che ebbe di lui un povero prete, giovò egualmente all’anima ed al corpo del buon Fanfulla, e finalmente possiamo presentarlo al nostro lettore come un uomo nuovo, affatto diverso da quel di prima, ed è lo stesso che dire come un galantuomo.

      S’avvide che n’avea fatte di grosse assai e che bisognava pensare a far un po’ di penitenza in questo mondo, onde non gli toccasse farla tutta nell’altro. Stette infra due, o di farsi frate o di tor moglie (la nostra lettrice non se l’abbia per male, e si ricordi che quantunque buono, era però sempre Fanfulla) alla fine si attenne al primo partito.

      Uscì di Roma una mattina sul suo buon cavallo coll’armi indosso ed accanto, portava infilzate all’elsa della spada, una corona, e al manico del pugnale una disciplina, arnesi che adoperava ogni sera all’albergo. Per Viterbo, Radicofani e Siena finalmente giunse a Firenze. Senza scavalcare si condusse alla porteria del convento di S. Marco, e picchiò col calcio della lancia. Uscì fuori il portinaio e gli domandò che voleva.

      —Che m’insegniate la stalla per rimetter questo cavallo, che mi vo’ far frate.—

      Sulle prime il portinaio credette che fosse pazzo od ubbriaco, pure dopo molte domande e molte difficoltà, dopo un diluvio di ma, di come, di perchè, s’indusse a lasciarlo entrare, ed a presentarlo a Fra Benedetto da Faenza il quale, udita la voglia dello strano postulante, considerandone l’abito, il taglio, e la faccia fiera non sapeva definire se dicesse da senno o da burla.

      Senza dar precisa risposta prese tempo alcuni giorni, durante i quali avendo avuto campo di far esaminare la sua vocazione, alla fine credette bene non dar ascolto a qualche dubbio, che pure gli rimaneva, e si risolse riceverlo per laico.

      Fanfulla depose tutta la ferraglia che portava addosso, vestì l’abito di S. Domenico, e si pose nome Fra Giorgio da Lodi. In pochi giorni imparò tanto del suo nuovo mestiere, da poter far discreta figura in coro ed in refettorio; ed il cavallo, che incominciava ad aver i denti lunghi ed il sopracciglio infossato, imparò anch’esso presto a portar sacchi al mulino ed a girar il bindolo dell’orto. Al punto in cui abbiamo trovato il suo antico padrone servendo messa, era già circa due anni dacchè ambedue aveano mutata la vita del campo con quella del chiostro, trovandosi contenti del loro nuovo stato, colla sola differenza, che non è probabile tornassero in mente al cavallo i tempi in cui correva la lancia, mentre all’opposto si rappresentavano ancora molto vivi talvolta alla memoria del cavaliere.

       Indice

      La messa da requie era terminata senz’altro disturbo. Il celebrante spogliatasi la pianeta, prese il piviale per far l’ultime esequie al cadavere, e scese dall’altare con tre chierici innanzi: l’uno portava la croce, gli altri due i candellieri. Fra Giorgio seguiva colla secchiolina dell’acqua benedetta.

      La folla si ritrasse dal feretro attorno al quale rimasero soltanto Niccolò ed i suoi figliuoli. Si recitaron le orazioni, si compierono le cerimonie e le aspersioni prescritte, e quando i preti furon tornati in sagrestia, Niccolò fattosi accostar Bindo spiccò la rotella e la spada di Baccio e reggendole colla manca, pose la destra in capo al figliuolo, al quale disse:

      —Bindo! Questa spada e questa rotella ch’io dò a te, ell’erano di Baccio che vedi qui morto per aver fatto il dovere di buon cittadino. Ora, guardami gli occhi: ti par egli ch’io pianga?—

      Il fanciullo tutto attonito accennò col capo di no.

      —E s’io non piango sappi che non è per poco amore ch’io portassi a codesto mio carissimo figliuolo e tuo fratello, ma perchè conoscendo essere ogni uomo obbligato in primo luogo al nostro Signore Iddio, ed alla sua santa fede, in secondo luogo alla patria, e dover porre in loro servigio le forze e la vita, ed essendo certo serbarsi a coloro che così fanno, onorata memoria in questo mondo, ed eterno premio nell’altro, io stimo la morte sua essere stata bellissima ed invidiabilissima. S’io piangessi dunque perchè egli lasciando noi tra la miseria di questa vita se n’è ito a godere l’infinite dolcezze dell’altra, mi parrebbe mostrarmi ingrato alla divina bontà, ed invidioso del ricco guiderdone che s’è comprato colle virtù sue.—Ora to’ quest’armi col nome di Dio: fa di mostrarti valente qual era Baccio, e con esse in mano o tu vinci o tu mori: e per quanto temi la maledizione d’un padre, l’ira di Dio, ed il vituperio tra gli uomini, abbi sempre innanzi gli occhi con qual viso e con qual core hai veduto me stare accanto alla bara d’un figliuolo morto virtuosamente; sappi ch’io vedrei te al luogo suo coll’istesso viso... Dio me ne darebbe la forza....—Ma sappi ancora (qui levò alta in atto fiero e terribile la mano che avea tenuta sin allora in capo a Bindo) che se tu, che Dio non voglia.... ti mostrassi.... no, non mi vo’ lordar la bocca con queste parole..... nè immaginar pure tanta bruttura nel sangue mio.....—Basta, chè tu m’hai inteso!.... Allora, se pur pur stimassi ancora la vita, fa che questi miei occhi non t’abbiano a veder mai più.—

      Al fine di queste parole, che dette da un uomo di tanta autorità, in occasione, e con modo così grave produssero gran senso su Bindo e sugli astanti, volle cingerli la spada. Il fanciullo alzando le braccia lo lasciava fare. Ma la cintura che stava bene alla vita di Baccio era troppo larga per quella del fratello. Disse Niccolò:

      —Troppo sei scarzo, povero Bindo mio!—E portando la fibbia addietro tre o quattro punti soggiunse:

      —Così starà bene....—

      Ma pensò nell’istesso tempo alla dura necessità che costringeva un fanciullo così tenero ad esporsi