Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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si venivano a troncare le speranze concette delle conquiste. Commise ancora il generale Austriaco qualche ostilità; ma finalmente, veduto che senza troppo scoprirsi, e dar sospetto, che i pensieri dell'Austria non si terminassero nella ricuperazione delle cose perdute, non poteva turbare l'accordo, vi accomodò l'animo, e voltate le bandiere verso l'Adriatico, se ne giva all'assedio d'Ancona, sola piazza che nello stato Romano ancora si tenesse pei repubblicani. S'imbarcarono i Francesi a Civitavecchia, e con essi tutti coloro fra i Romani, che stimarono più sicuro l'esiglio, che il commettersi alla fede di un governo provocato con tante ingiurie. Burcard occupò primo la città, poscia vi venne don Diego Naselli, dei principi d'Aragona, mandato da Ferdinando con potestà suprema militare e politica, per ridurre a qualche sesto le cose scomposte dalla rivoluzione, innanzichè il governo pontificio vi fosse restituito. Creò un superiore magistrato con titolo di suprema giunta del governo, a cui chiamò i principi Aldobrandini e Gabrielli, ed i marchesi Massimi e Ricci. Aggiunse un tribunale di giustizia sotto nome di giunta di stato, a cui chiamò per presidente il cavaliere don Jacopo Giustiniani, e per avvocato fiscale monsignor Giovanni Barberi. Ufficio di questo tribunale fosse, che la quiete dello stato non si turbasse, e chi la turbasse, fosse castigato. La suprema giunta notò i beni venduti ai tempi della repubblica, come nazionali, ed abrogò le vendite fatte, riserbando agli spossessati il ricorso dei compensi: contenne il libero scrivere, frenò la licenza del vestire sì degli uomini che delle donne, e richiamò ai luoghi loro le suppellettili rapite o vendute del Vaticano e delle chiese, rimborsando però il valore a chi le avesse comperate. Inibì l'ingresso e la dimora in Roma a tutti che avessero avuto cariche nella repubblica, e bandì da tutto lo stato Romano i cinque notaj Capitolini, che avevano rogato l'atto della sovranità del popolo, e della deposizione del sommo pontefice. Oltreacciò i beni dei repubblicani furono generalmente sequestrati, poi confiscati, e quindi molti di loro ridotti a crudele miseria. Gran numero di coloro che avevano partecipato nel governo precedente, dopo di essere stati esposti ad infinite vessazioni ed insulti, furono gettati in carcere, fra i quali merita particolar menzione il conte Torriglioni di Fano, che era stato ministro dell'interno, uomo di alto merito e d'illibati costumi; gli antichi consoli Zaccaleoni e Dematteis, uomini rispettabili, condotti a dorso d'asino in via del Corso in mezzo agli scherni di una scatenata plebaglia. Tutte queste enormità violavano la capitolazione, ed erano incomportabili; perchè se la impunità di chi aveva errato pareva scandalosa al governo di Roma, assai più scandaloso, e di peggiore esempio era il rompere la fede data. Del resto non si fece, come a Napoli, sangue per giudizj; moderazione degna di molta lode. Ma la sfrenatezza delle soldatesche Napolitane suppliva in questo, perchè oltre al rubare nelle botteghe e nelle strade, il giorno come la notte, uccisero anche parecchie persone, che vollero difendersi dalla loro rapacità. Questi delitti andavano impuniti. Un povero fabbro, per aver voluto, contro il divieto di alcuni uffiziali Napolitani, usare del diritto che aveva per contratto legale, di attinger acqua ad una fontana nel palazzo Farnese, fu dai medesimi condannato alla pena del bastone per cui morì: la sventurata sua moglie se ne morì di dolore. Roma offesa dai Napolitani, era compresa da un alto terrore.

      Le vittorie di Kray e di Suwarow avevano posto in mano degli alleati la valle del Po, quelle di Ruffo, e le mosse dei sollevati di Toscana, tolto al dominio dei Francesi e dei repubblicani il regno di Napoli, lo stato Romano e la Toscana. Sulla destra degli Apennini, altra sedia non avevano più i Francesi, che Genova con la riviera di Ponente, sulla sinistra Ancona. Conservavano gelosamente i repubblicani il Genovesato, perchè siccome prossimo ai loro territorj, poteva facilmente servir loro di scala al riacquistarsi il Piemonte e l'Italia. Ma Ancona tanto lontana non poteva più avere speranza di far frutto importante, ed il volervisi tenere più lungo tempo era piuttosto desiderio di buona fama, e gelosia di onore, che pensiero di arrecar qualche momento nelle sorti della guerra. Tuttavia non si smarriva d'animo il generale Monnier, che stava al governo della piazza con un presidio, che tra Francesi, Cisalpini e Romani, non passava tre mila soldati, e forse nemmeno arrivava a questo numero. Erano in questa parte d'Italia le condizioni della guerra le seguenti. Occupava Monnier col suo presidio Ancona, non sì però rinserrato, che non uscisse fuori di quando in quando a combattere, di sotto fino a Ripatransone ed Ascoli, di sopra sino a Fano ed a Pesaro. Ma siccome il suo più sicuro ricetto era Ancona, così alle antiche aveva, con somma diligenza ed arte, aggiunto nuove fortificazioni. Muniva con qualche trincea e forza d'artiglierìe la montagnola, che domina la strada per a Sinigaglia. Più vicino alla piazza affortificava con un ridotto frecciato, palizzato, affossato, ed armato di ventiquattro pezzi d'artiglierìa il monte Gardetto, il quale siccome quello che signoreggia la cittadella ed il forte dei Cappuccini, era di grandissima importanza, ed il principale mezzo di difesa; perchè se il nemico ne fosse impadronito, avrebbe fatto vano il resistere degli assediati. Aveva anche munito il monte Santo Stefano, che più da vicino che il Gardetto batte la cittadella. Perchè poi l'adito fosse intercluso al nemico di avvicinarsi a questi due monti, nella conservazione dei quali consisteva quella della piazza, guerniva anche di trincee e d'artiglierìe i monti Pelago e Galeazzo, che sono come propugnacoli naturali, od opere avanzate ai monti Gardetto e Santo Stefano. Nè lasciava senza batterìa il monte Ciriaco, che posto a riva il mare difende il molo d'Ancona. Sul molo stesso ed al fanale piantava cannoni, perchè siccome non gli era ignoto che i collegati l'avrebbero assaltato anche dalla parte del mare, desiderava di assicurarsi dagl'insulti loro. A questo medesimo fine piantava molte batterie al Lazzaretto, magnifica opera del pontificato di Pio VI. A questo modo la piazza d'Ancona, la quale, ancorchè munita di una forte cittadella, non ha in se molta fortezza per esser dominata dalle eminenze vicine, era per la diligenza usata da Monnier divenuta fortissima: non si poteva venire agli approcci della piazza, se prima non erano sforzate le fortificazioni esteriori, effetto difficile a conseguirsi per la natura dei luoghi.

      Non mancavano dall'altra parte mezzi di espugnazione ai confederati. Una flotta Turca e Russa governata dall'ammiraglio Woinowich, e comparsa nelle acque d'Ancona, ora bloccava la bocca del porto, perchè nuovo fodero non vi arrivasse, ora faceva sbarchi di gente sui lidi circonvicini. Quest'era la flotta, che già vincitrice di Corfù, intendeva al conquisto di Ancona, ponendo sull'Italiche terre coi Turchi e coi Russi i barbari dell'Epiro. Ad essa veniva a congiungersi un navilio sottile d'Austria per poter meglio accostarsi a terra, ed infestare le spiaggie marittime. Dalla parte del Regno gli abitatori delle rive del Tronto si erano levati a romore, e condotti da un Donato de' Donatis, da preti e da frati, ed accompagnati da qualche nervo di genti ordinate, correvano tutto il paese, e minacciavano di stringere il presidio d'Ancona dentro le mura. Dalla parte poi della Romagna tumultuavano anche i popoli contro i repubblicani: Pesaro e Fano, voltate le armi contro di loro, facevano un moto di molta importanza. Sinigaglia stessa, quantunque più vicina ad Ancona, titubava. Niuna cosa più restava sicura ai repubblicani, che le Anconitane muraglie. Eransi le popolazioni di Pesaro e di Fano mosse da se stesse, e per opera principalmente de' nobili, e della gente di chiesa; ma s'aggiunse loro, sussidio efficacissimo, l'opera ed il nome del generale cisalpino Lahoz. Era Lahoz stato stromento potente ai Francesi per turbare l'antico stato d'Italia. Amico al generale Laharpe aveva militato con lui, e come egli, nodriva l'animo volto a libertà. Abborriva anche, come il suo amico, dal sacco su quei primi fervori; ma molto poi aveva rimesso della sua virtù, massime quando faceva la guerra ai governi, ed a uomini che si chiamavano col nome detestato di aristocrati. Servendo con molta efficacia alle mire di Buonaparte contro la repubblica Veneziana, aveva nella terraferma operato a rovina di lei, con aver chiamato i popoli con parole veementi e con fatti sregolati a ribellione. Era anche stato in Cisalpina ardente cooperatore, perchè la repubblica si creasse un esercito grosso e bene disciplinato, avvisando, che in mezzo alle strette congiunzioni degli stati Europei, là non poteva essere nè libertà, nè independenza, dove non erano forti armi. Ma in questo aveva fatto poco frutto, ripugnando la natura quieta dei popoli, e distogliendogli il mal governo che di loro facevano i nuovi signori. Grande irritamento all'animo suo altiero ed Italiano erano le rapine, e le insolenze di coloro, che venuti con dolci parole in Italia, l'avevano sobbissata con amari fatti. Siccome assai diverso era stato l'effetto dalle promesse, così ancora in lui avevano principiato a pullulare nuovi pensieri, parendogli, che non si dovesse serbar fede a chi non l'aveva serbata. Così Lahoz rodeva di rabbia, e dava luogo nella sua mente ad insoliti pensieri contro Francia. Quando poi vennero i tempi infelici, continuò, a malgrado che ne avesse, ma per la occasione non propizia, a serbar fede, ed a seguitare le insegne della repubblica; ma l'animo gonfio si manifestava fuori, e spesso gli uscivano di bocca parole aspre e minacciose contro il dominio