Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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di Thurn, a cui diede facoltà ed ordine di giudicare, se Francesco Caraccioli fosse reo di ribellione contro il re delle due Sicilie per avere combattuto la fregata Napolitana la Minerva. Allegò l'accusato per discolpa, averlo fatto per forza, ma nol potè pruovare. Dannavalo il consiglio a morte. Nelson comandava, s'impiccasse all'antenna della Minerva, il suo corpo si gettasse al mare. Il misero principe pregava dicendo, essere vecchio, non aver figliuoli che fossero per piangere la sua morte, per questo non desiderare la vita: solo pesargli il morire da malfattore; pregare, il facessero morire da soldato. Le compassionevoli preghiere non furono udite. Volle il condannato pregare d'intercessione la donna, che era a bordo del Fulminante; ma Emma Liona non si lasciò trovare. Il capestro adunque, come piacque all'Inglese, strangolò il principe Caraccioli; il suo corpo gettato al mare. Così fu mandato a morte da Nelson un principe Napolitano, prima suo antico compagno in pace, poi suo nemico generoso in guerra: ed il giudizio di morte venne da una nave del re Giorgio. Poi, che vuol significare quella pressa di giudizio e di morte? Non era il re vicino? Non a lui si doveva ricorrere? Perchè intercludere la strada alla grazia? Si temè l'amore, non il rigore del re. Da un'altra parte, perchè gettare il corpo ai pesci? Non era vicino il lido? Non pronti i parenti e gli amici a raccogliere le amate reliquie? Adunque un principe Caraccioli, un servitor del regno per quarant'anni, un ammiraglio di Napoli, un uomo che per un sì lungo corso d'età era stato ed amato e riverito da Europa, non trovò sepoltura, se non nella bocca dei voraci mostri del mare! Non saziò la sua morte il crudo Inglese, volle ancora, che s'incrudelisse contro quell'onorato volto, contro quelle membra insensibili! Queste sono le glorie di Nelson nel golfo di Napoli.

      Grande fu la strage nella capitale, sì pei giudizj, sì per la rabbia popolare. Non fu minore nelle province: perironvi in modo sempre violento, spesso crudele, quattromila persone, quasi tutte eminenti o per dottrina, o per legnaggio, o per virtù; carnificina orribile.

      Io già feci, scrivendo queste storie, sì frequenti accoppiamenti d'idee dolci e terribili o di virtù e di patiboli, o di fede e di tradimenti, o d'innocenza e di vizj, che non so se il lettore me ne comporterà ancora un altro. Pure, se fia ch'ei debba muovere a sdegno ed a compassione i nostri posteri, io il mi racconterò. Domenico Cimarosa, cui tutta la generazione proseguiva con infinito amore per le sue mirabili melodìe, ed a chi chiunque non era straniero alla delicatezza del sentire, era obbligato di tanti affetti soavi pruovati, di tante tristi ed annuvolatrici cure scacciate, non trovò grazia appo coloro che reggevano le cose di Napoli con le ire, e le ire coi supplizj. Pregato, egli aveva composto la musica per un inno repubblicano, opera di un Luigi Rossi. Venuta Napoli in mano dei sicarj di Ruffo, furono primieramente le sue case saccheggiate, anzi il suo gravicembalo, fonte felicissimo di canti amabili, gittato per le finestre a rompersi sulle dure selci; poi egli medesimo cacciato in prigione, dove stette ben quattro mesi, e vi sarebbe stato anche di più, se i Russi ausiliarj del re non fossero giunti a Napoli. Saputo il caso, e non avendo potuto ottenere dal governo Napolitano, al quale l'avevano domandata, la sua liberazione, generale ed ufficiali corsero al carcere, e l'Italico cigno liberarono. Così in una Italia, in una Napoli la salute venne a Cimarosa dall'Orsa. Mi vergogno per l'Italia, rendo grazie alla Russia. Pure il misero Domenico, quantunque fosse posto in libertà, tra per l'afflizione dell'animo, ed i patimenti del corpo al tempo della sua carcerazione, se ne morì poco dopo a Venezia, dove era stato chiamato per comporre un'opera.

      Riconquistata la sanguinosa Napoli, premiava il re con magnifici doni coloro, che l'avevano tornata a sua divozione. Investì il cardinale Ruffo della badìa di Santo Stefano, che ha una valuta all'anno di cinque mila ducati di regno: davagli oltreacciò il possesso in proprio di un'altra tenuta con rendita di circa cinquemila ducati. Queste furono le dimostrazioni del re utili al cardinale. Del resto ei non ebbe più grazia, e gli fu tolto il governo delle faccende, a ciò instigando il re Acton per gelosia, Nelson per dispetto, perchè il cardinale aveva voluto che si osservassero i patti. Fu a Palermo eretto un tempio alla gloria, nel quale entrando in mezzo a plausi infiniti Nelson, gli fu posta dal principe Leopoldo, figliuolo del re, una corona d'alloro in capo. Il presentava il re con una spada gioiellata, duca di Bronte chiamandolo. Diegli inoltre una rendita di sei mila once di Napoli. Nè mancarono i presenti per Hamilton ambasciadore; Emma Liona ebbe ancor essa i suoi.

      Essendo, nel modo che abbiamo raccontato, caduta nelle due estremità d'Italia la potenza dei Francesi, restava ancor in poter loro la Romana repubblica, ma non sì, che non si vedesse vicina la inevitabile rovina loro anche in questa parte. Suonavano dentro, e d'intorno le armi dei confederati, o regolari o collettizie. Avevano gli Aretini sempre infiammati nell'impresa loro contro i Francesi, in ciò secondati anche dai Cortonesi, avendo le due città in così grave occorrenza posto in disparte le antiche emolazioni, fatto un moto importante sulle rive del Trasimeno, e sforzato Perugia ed il suo forte alla dedizione. A questo modo si erano posti in mezzo, onde i Francesi rimasti alla guardia di Roma e dei luoghi circonvicini non potessero più comunicare coi loro compagni, che se ne stavano assediati in Ancona. Lo stato Romano quasi tutto tumultuava e tornava all'obbedienza pontificia. Ufficiali antichi del pontefice, preti, frati, canonici, le rabbiose popolazioni stimolavano e guidavano, e se fu insolente in quelle regioni il dominio dei repubblicani, non fu meno sfrenato quello dei pontificj che risorgevano. Le vendette non solo si facevano contro le insegne inanimate della repubblica, ma ancora contro i corpi viventi dei repubblicani. Furonvi al solito uccisioni, rapine, ingiurie a uomini e a donne, con tutte l'altre pesti indotte dei popoli mossi a romore. In questa guisa i Francesi ed i soldati della repubblica Romana furono sforzati a ritirarsi ai luoghi forti, lasciando gli avversarj signori della campagna. Da un'altra parte nè Froelich, che aveva nella Romagna il governo delle genti, nè il re di Napoli, dopo la ricuperazione del regno, avevano trasandato le Romane cose. Ad essi accostavansi gli Inglesi con qualche squadrone di genti da terra, e con navi condotte dal capitano Trowbridge nelle acque di Civitavecchia. Diversi, secondo la diversità degli umori e degl'interessi delle potenze, erano i pensieri di ciascuna. L'Austria intendeva a conquistare per se, Napoli a questo medesimo fine, ed a fare la corona libera dalle molestie della corte di Roma. Agl'Inglesi poi pareva, che molto memorabil caso fosse, che venissero a rimettere un papa nel suo cattolico seggio.

      Adunque la repubblica Romana era chiamata a ruina da tutte le parti. Nè il generale Garnier, che ne stava alla custodia, perduto avendo ogni speranza di soccorso, e mancando di genti, poteva resistere a tanta piena. Froelich faceva impeto in primo luogo contro Civitacastellana, ed avendola occupata facilmente, s'incamminava a Roma. Dalla parte bassa salivano i Napolitani condotti da un Burcard Svizzero, e turbavano tutto il paese sulla sinistra del Tevere. Erano con loro gl'Inglesi di Trowbridge, che, procurata prima la resa di Capua e di Gaeta, se ne venivano alla conquista di Roma. Usciva Garnier alla campagna, piuttosto per non capitolare senza combattere, che per combattere, per vincere. Fuvvi un duro e lungo incontro tra i repubblicani sì Francesi che Romani da una parte, ed i Napolitani dall'altra, presso a Monterotondo. Ritiraronsi i Napolitani ai luoghi più alti e montuosi. Non erano ancora i soldati di Garnier riposati dalla fatica della battaglia di Monterotondo, che gli conduceva contro Froelich; ma sebbene con molto valore combattesse, fu costretto a ritirarsi nelle mura di Roma, restando in suo potere le sole fortezze di castel Sant'Angelo, Corneto, Tolfa e Civitavecchia. Questo fatto diè cagione di risorgere anche ai Napolitani dall'altra parte. Perlochè riavutisi dalla rotta di Monterotondo, s'avviarono di nuovo contro Roma. Posero gli Austriaci le loro prime guardie alla Storta, i Napolitani a Portaromana, ed a Pontemolle. Consideratosi da Garnier il precipizio delle cose, e pensando che il cedere a tempo sarebbe non solamente la salute de' suoi, ma ancora quella dei repubblicani di Roma, che avevano seguitato la fortuna Francese, aveva introdotto una pratica d'accordo con Trowbridge, quale fu condotta a perfezione, e sottoscritta da ambe le parti il dì venticinque settembre. Le principali condizioni furono le seguenti: uscissero i Francesi da Roma, Civitavecchia, Corneto e Tolfa con ogni onore di guerra; serbassero le armi, non fossero prigionieri di guerra; si conducessero in Francia od in Corsica; i Napolitani occupassero castel Sant'Angelo e la Tolfa, gl'Inglesi Corneto e Civitavecchia; i Romani, che volessero imbarcarsi coi presidj Francesi, e trasportare le proprietà loro, il potessero fare liberamente, e quei che rimanessero, e che si fossero mostrati affezionati alla repubblica, non si potessero riconoscere nè delle parole, nè degli scritti, nè delle opere passate, e fossero lasciati vivere quietamente, sì veramente che vivessero quietamente, e secondo le leggi. Penò qualche tempo Froelich a consentire all'accordo, parte per dispetto, perchè Garnier aveva amato meglio trattare con gl'Inglesi