Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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il rendeva venerando. Ma i carnefici non si rimanevano, perchè il tempo era venuto che una illusione proveniente da fonte buona coll'estremo sangue si punisse, ed alla virtù vera non si perdonasse. Se gli offerse la grazia, purchè la domandasse, non perchè virtuoso, dotto, e da tutto il mondo onorato fosse, ma perchè aveva servito della sua arte Nelson ed Emma Liona. Rispose sdegnato, non volere domandar grazia ai tiranni, e poichè i suoi fratelli morivano, volere morire ancor esso; nè desiderio alcuno portar con se di un mondo che andava a seconda degli adulteri, dei fedifragi, dei perversi. La costanza medesima che mostrò coi detti, mostrò coi fatti: perì per mano del carnefice, ma perì immacolato e sereno, e tra Nelson e lui fu in quella suprema ora gran differenza perchè l'uno saliva nel suo preparato seggio in cielo, l'altro restava nel suo disonorato seggio in terra. Francesco Conforti, per dottrina nelle scienze morali e canoniche a nissuno secondo, a quasi tutti il primo, uomo che una lunga vita aveva vissuto o nelle sue segrete stanze a studiare, o sulle pubbliche cattedre ad insegnare, fe' testimonio al mondo col suo miserando fine che niuna cosa è più inesorabile della rabbia civile e che la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici. Era Conforti defensore vivissimo delle immunità del regno contro le pretensioni della corte di Roma, e molte cose per comandamento e con singolar satisfazione del governo aveva scritto intorno a questa materia; ma il beneficio si dimentica più presto dell'ingiuria. Preso e legato dagli sbirri in Capua, gli diè di mano il boja in Napoli. Speciale gli mandò dicendo, scrivesse per le immunità del regno, e gli si sarebbe perdonato. Scrisse, e patì morte sul patibolo. Il sapere era incentivo alla ferità di quello Speciale, sitibondo di sangue. Vincenzo Russo, giovane singolarissimo per altezza d'animo, e per eloquenza e per umanità, portò con gli altri supplizio dello aver creduto che gli uomini si potessero condurre con nuove forme di reggimento politico ad un più felice vivere, e dello avere con la lingua, per cui tanto poteva, e con la mano che con ugual vigore secondava la lingua, quella condizione cercato che nella sua mente benevola si era a benefizio degli uomini concetta. Fu preso combattendo contro le genti regie al ponte della Maddalena: il diritto regio domandava la sua morte; l'illusione sua il doveva far compatire, la capitolazione dei castelli conservare. Prevalse il partito più fiero; dopo gli strazj infiniti che nella sua prigione furono fatti di lui, e cui sopportò con costanza ineffabile, fu dato in preda al carnefice. Non mutò volto, non fe' atto alcuno indegno di lui; serbò, non solo la equalità dell'animo, ma ancora la serenità. Pareva che non a morte, ma a miglior vita andasse, e certo andava. Giunto là dov'ei doveva dare il sospiro estremo, rivoltosi alle circostanti e feroci turbe che l'insultavano: «Questo disse, non è per me luogo di dolore, ma di gloria: qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell'uomo giusto e saggio: pensa, o popolo, che la tirannide ti fa ora velo agli occhi, e inganno al giudizio: ella ti fa gridar viva il male, muoja il bene; ma tempo verrà, in cui le disgrazie ti renderan la mente sana; allora conoscerai, quali siano i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi ancora che il sangue dei repubblicani è seme di repubblica, e che la repubblica risorgerà, quando che sia, e forse non è lontana l'ora, come dalle sue proprie ceneri la Fenice, più possente e più bella di prima». Mentre così diceva, il boja lo strangolò. Nè giovò a Pasquale Baffi la dolcezza incredibile della sua natura, la straordinaria erudizione, l'essere uno dei primi grecisti del suo tempo, nè l'avere pubblicato una traduzione, col testo dei manoscritti greci di Filodemo trovati sotto le ceneri di Ercolano. Letterato di primo grado, fu dannato anch'egli all'ultimo supplizio da chi non aveva altre lettere che del saper sottoscrivere una sentenza di morte. Data la condanna, un suo amico, affinchè con morte volontaria sfuggisse la violenta, gli offerse oppio. Ricusò il funesto dono, sdegnosamente affermando, non essere in potestà dell'uomo il far getto volontario della propria vita; voler andare all'incontro del suo destino, comunque crudele fosse; non ispaventarlo la morte, non disonorarlo il patibolo; Dio esservi rimuneratore delle buone opere; nell'altra vita prima opera meritoria essere il conformarsi di buon grado alla volontà sua; appresso a lui non avere accesso gli odj, non le intemperanze dei tiranni; giusto essere Iddio, e mansueto e pietoso, ed accorre nel grembo suo volentieri gli uomini giusti, mansueti e pietosi; venisse pure il carnefice, il troverebbe rassegnato e pronto. In cotal modo filosofando e bene amando, Pasquale Baffi morì. Fu Mantonè, antico ministro di guerra, condotto alla presenza di Speciale, e quante volte era interrogato da lui, tante rispondeva: «Ho capitolato». Avvertito, apprestasse le difese, rispose: «Se la capitolazione non mi difende, avrei vergogna di usare altri mezzi». Condannato a morte, camminava, col capestro al collo, in mezzo a' suoi compagni, con fronte alta e serena: poi volti gli occhi intorno, e scortigli tutti, non vedendo fra di loro Bassetta: «Oh, disse, perchè con noi non è»? Fugli risposto, aversi salvata la vita col disvelare e denunciare repubblicani nascosti, o non conosciuti. «Ah, soggiunse, assassino vile de' tuoi fratelli! siatemi voi testimonj, ch'io la viltà sua aveva scoverto, e il volli far uccidere pochi giorni sono. Ma vi so dire ch'ei non godrà lungo tempo il frutto de' suoi tradimenti: ei morrà infame, poichè onorato non ha saputo morire». Così detto, Mantonè, tra sdegnoso e generoso, co' suoi compagni che costanti al par di lui la sua costanza ammiravano, se ne marciava al patibolo. Salite, senza mutare nè viso nè atto le fatali scale, dimostrò che l'uomo quantunque percosso dalla fortuna, è più forte di lei, e che non lo spaventa la morte. I raccontati supplizj, siccome d'uomini, partorirono maraviglia insieme e pietà in coloro che non ancora di ogni affetto umano si erano dispogliati; ma più maraviglia che pietà. Il seguente, siccome di donna, mosse più a pietà che a maraviglia: pure a grandissima maraviglia strinse i circostanti. Eleonora Fonseca Pimentel, donna ornata di ogni genere di letteratura, ed ancor più di virtù, da Metastasio lodata, e da lui anche amata, fu, per avere scritto il Monitore Napolitano, condannata a perder la vita sulle forche piantate in piazza di mercato. Chiamata al supplizio, domandava e beveva caffè, poi marciava in sembianza di donna maggiore della disgrazia. Giunta al luogo che era per lei l'ultimo in cui viva insistere dovesse, incominciò a favellare al popolo; ma i carnefici, temendo di tumulto, le ruppero tostamente il femminile e tenero collo con le corde loro, e troncaronle ad un tratto le eloquenti parole.

      Non tutti i condannati morirono sul patibolo, ma chi più crudelmente, chi meno. Un Velasco, minacciato da Speciale, che il farebbe morire sulle forche, rispose: Vile carnefice non avrai tu la mia vita. Ciò detto, diè un salto per la finestra, e si sfracellò per terra. Narrasi d'un Niccolò Fiani, che già stando sul punto di salire al patibolo, uomini barbari se l'abbian preso e fatto a pezzi, e strappatogli il cuore, abbiano il cuore, e le sparse viscere, e le lacerate membra portato a trionfo per la città. Un Pasquale Battistessa impiccato, e portato in chiesa, ivi diè segni di vita. Rapportato il compassionevole caso a Speciale, mandò dicendo, il finissero: come Speciale aveva comandato, così fu fatto. Io non so se mi narri storie d'uomini o di fiere.

      Morirono in Napoli per l'estremo supplizio e tutti con invitto coraggio Ignazio Ciaja, Ercole d'Agnese, cittadino di Francia, ma originario di Napoli, Giuseppe Logoteta, dotto e virtuoso uomo, Giuseppe Albanese, Marcello Scotti letterato eruditissimo, ed autore del catechismo dei marinarj, un Troisi, sacerdote piissimo e dottissimo, con molti altri, ornamento e fiore delle Napolitane contrade. Fu anche affetto coll'ultimo supplizio Ettore di Ruvo, condotto, come abbiam detto, da Pescara a Napoli sotto fede del cardinale. Morì, qual era vissuto, indomito, animoso, ed imperturbabile. Come nobile, fu condannato ad aver il capo mozzo. Volle essere decapitato supino, per veder la mannaia, che gli doveva tagliar il collo.

      La terra di Napoli era fumante di sangue, le acque del mare ne furono parimente penetrate e tinte. Il principe Francesco Caraccioli, primo onore e primo lume della Napolitana marinerìa, amato dal re, stimato dal mondo, dopo più di otto lustri impiegati ai servigi del regno, fece ancor esso una compassionevole fine. Si era Caraccioli, ed in questo certamente il suo fallire fu enorme, perchè il re gli era affezionato, molto travagliato in favore dello stato nuovo. Fatta la capitolazione dei castelli, e vedendola rotta, si era ritirato a Calvirano, pregando il duca di questo nome, acciocchè per sicurezza della sua vita minacciata dai regj, che da ogni parte il circondavano, gli fosse mediatore presso il cardinale, allegando, sperare, che l'avere obbedito per forza alcuni giorni alla repubblica Francese, non sarebbe per prevalere a quarant'anni di fedelissimo servizio. Non avuta risposta favorevole, se ne fuggiva ai monti. Scoperto da un suo domestico, fu condotto, legate le mani al dorso, e indegnamente maltrattato da villani ferocissimi (sì deplorabili mutazioni di fortuna partoriscono le rivoluzioni) a Nelson, che tuttavia stanziava nel porto di Napoli. Convocava l'ammiraglio incontanente a bordo della sua nave il Fulminante un consiglio militare, composto di