Название | Il fallo d'una donna onesta |
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Автор произведения | Enrico Castelnuovo |
Жанр | Языкознание |
Серия | |
Издательство | Языкознание |
Год выпуска | 0 |
isbn | 4064066073039 |
La Teresa chinò la fronte vergognosa. Ella sentiva che Guido aveva ragione, ch'era ingenuo il sopporre che la servitù non avesse scoperto i loro amori, non avesse origliato agli usci, commentato con plebea volgarità la frequenza e la lunghezza dei loro ritrovi; e cionullostante provava una ripugnanza invincibile a compiacere di Reana che avrebbe voluto farle accettare gli appuntamenti nel suo quartierino ammobigliato o in altro luogo fissato da lui… Fin che restava nella propria casa le pareva che la caduta fosse meno profonda ed ignobile… Pure, con un grande sforzo, da Guido era stata una volta e s'era lasciata strappar quella promessa di ritornarvi da cui ora tentava invano di esimersi.
—No—insisteva il sottotenente—non devi per un puntiglio guastar tutto il bene che m'hai fatto… Non devi costringermi a dubitare del tuo grande amore.
—Ma, Guido… t'ho negato nulla?—ella disse.—Ti nego nulla?
—Avrò torto, ma ne dubiterei—egli riprese.—Sono tanto triste all'idea di abbandonarti che non riesco ad intendere come tu voglia amareggiarmi di più.—E proseguì carezzevole, insinuante:—Vedi, Teresa, ho preparato tutto… Alle undici tu fai colazione con me… servita da me… giudicherai tu stessa se so servir bene, se so apparecchiar bene la tavola… Fammi quest'ultima grazia… Non aver paura, Teresa… te lo giuro che saremo soli in tutto l'appartamento… I padroni stanno di sopra… il capitano del genio che aveva una camera vicina alla mia è in licenza… Vieni, vieni.
Sebbene commossa, ella non aveva ancora risposto di sì quando suonò il campanello di strada.
Erano così avvezzi a non esser disturbati la sera che balzarono tutti e due in piedi esprimendo in forma quasi identica lo stesso pensiero.
—Chi sarà?—egli disse.—Non ricevere.
Ed ella:
—Chi può essere?… Già non ricevo.—E uscì per dar gli ordini alla cameriera.
Ma questa che aveva guardato dalla finestra le riferì ch'era suo zio il console…
A lui ella non poteva far dire che non riceveva; non poteva nemmeno far dire ch'era malata; col pretesto della parentela egli sarebbe stato capacissimo di andarle in camera da letto. E ordinò di lasciarlo passare.
Ma fin ch'egli saliva le scale ella ebbe tempo di calmar le furie di
Guido.
—Bisogna rassegnarsi… Non posso licenziarlo come un estraneo… Era in campagna… Forse vorrà qualche cosa… E potrebb'esser che si spicciasse subito… Ma ho paura… Tu resta dieci minuti, un quarto d'ora, e s'egli non si decide ad andarsene, va tu…
—Per tornare?
—No, Guido…. Abbi pazienza…. non conviene.
—Proprio stasera…. la penultima sera che stiamo insieme.
—Lo so, è una disdetta… Ma chi ne ha colpa?.. Senti, sii ragionevole, non far quel muso lungo… Domani…
—Ebbene?… Domani?
—Ti do la mia parola d'onore che alle undici sarò da te.
—Ah, finalmente ti sei decisa…
—Parla piano.
—Ti sei decisa!
—Sarai contento.
—Angelo!
E saltandole addosso le diede un bacio.
—Giudizio ora!—ella intimò.
Era tempo, perchè di lì a un momento la cameriera introdusse il signor commendatore.
VI.
Il commendatore barone Amedeo Venosti Flavi, zio materno della Teresa Valdengo, console di un insignificante Staterello la cui rappresentanza senza recargli il minimo incomodo gli permetteva di avere uno stemma sulla porta di casa e d'indossare un'uniforme nelle cerimonie ufficiali, era un uomo di sessant'anni passati, alto, piuttosto corpulento, coi baffi e i capelli tinti e coi denti posticci. A malgrado di ciò, per la sua età, era un bell'uomo, e sapeva d'esser tale, e aveva ancora le sue pretese galanti. D'una vanità morbosa, pareggiata solo dalla pochezza dell'ingegno e dall'inettitudine a ogni applicazione continuata, il commendatore Venosti Flavi non era felice che quando poteva appiccicarsi ai panni di qualche pezzo grosso, di quelli che figurano negli almanacchi della nobiltà, nel Gotha sopratutto… Oh, il Gotha era il suo libro di devozione; ne comperava ogni anno un paio di copie, una delle quali teneva nel suo salotto, l'altra sul comodino accanto al suo letto, per sfogliarlo nelle ore d'insonnia. E poi, chi sa? per mezzo di quelle pagine trasudanti sangue blù si sarebbe forse operata una trasfusione benefica nelle sue vene. Giacchè, pur troppo, in quanto a lui non era mica di sangue purissimo, e c'era voluto il fine ingegno del suo intimo amico cavalier Santi, membro della Consulta araldica, grande restauratore di nobiltà avariate, per imbastirgli una baronìa facendogli aggiungere al borghesissimo cognome paterno quello della madre che nasceva d'una vecchia famiglia trentina. Comunque sia, tra pel Consolato, tra perchè parlava discretamente il tedesco, egli aveva la soddisfazione di conoscere parecchi di quegli illustri personaggi dell'almanacco, a cui, nelle loro visite a Venezia, faceva da cicerone, un po' meno bene di quello che non faccia un mediocre servitore di piazza. Spesso gli alti uffici prestati gli valevano una decorazione, ed egli ne aveva racimolate quindici che gli scintillavano sul petto nelle occasioni solenni, e gli davano l'apparenza d'un Dulcamara alla fiera.
La Teresa Valdengo e lo zio commendatore erano d'indole tanto diversa da non potervi esser mai stata fra loro intimità alcuna. Nondimeno, quando la nipote era rimasta vedova, lo zio, che era celibe, le aveva proposto di far casa comune. Una donna giovine e bella, egli le diceva, non istà sola senza dar pascolo alle chiacchiere della gente; d'altra parte a lui, uomo maturo, cominciava a pesar la vita da scapolo; o perchè dunque non provavano ad abitare insieme? Erano ricchi tutti e due; potevano intendersi facilmente rispettando la reciproca indipendenza.
La proposta era ragionevole e la Teresa consentì a tentare l'esperimento. Ma non tardò a pentirsene. Lo zio, oltre a esser noioso e pedante, era un piccolo tiranno, pieno d'esigenze e di suscettività, intollerabile con le sue fisime aristocratiche, con la sua mania del chic e del comm'il faut. E mentr'egli aveva ogni momento qualche personaggio esotico da presentare alla Teresa perchè lo invitasse a colazione o a pranzo, trovava sempre da ridire sulle relazioni maschili di lei: e che non avevano abbastanza un bel nome, e che mancavano di comm'il faut, e che mancavano di chic. Non gli andava a genio neppur Vergalli, benchè fosse un conte autentico; lo trovava tirato giù troppo alla buona, noncurante dei vantaggi della nascita, in sconveniente dimestichezza con letterati ed artisti, dimentico dei riguardi dovuti a lui, barone commendatore Amedeo Venosti Flavi.
Insomma, di lì a pochi mesi, la Teresa volle riprender la sua libertà, tanto più che il signor console un giorno, in un minuto di buon umore, le aveva sottoposto l'idea di un matrimonio fra loro due, e in seguito alla sua sdegnosa ripulsa aveva cercato meno legittime consolazioni fra le braccia della sua cameriera.
Del resto, i rapporti ufficiali fra zio e nipote non erano mai stati interrotti, ed egli veniva a desinare da lei una volta o due al mese, senza contare gl'inviti straordinari che per compiacerlo ella faceva di tratto in tratto a lui e a qualche forestiero del quale egli desiderava accaparrarsi le grazie. Egli dal canto suo le inviava cerimoniosamente un paio di regali all'anno.
Scambiati i saluti, la Teresa accennò a di Reana che s'era levato in piedi.—Non occorrono presentazioni—ella disse.—Vi siete incontrati altra volta.
I due uomini, guardandosi in cagnesco, fecero un segno affermativo col capo, e si diedero la mano di malavoglia.
—Che buon vento?—ripigliò la padrona di casa rivolgendosi