Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

Читать онлайн.
Название Novelle e paesi valdostani
Автор произведения Giacosa Giuseppe
Жанр Зарубежная классика
Серия
Издательство Зарубежная классика
Год выпуска 0
isbn



Скачать книгу

appena seguito, bensì tre mesi dopo, quando cioè un caso fortuito ebbe rivelato il cadavere del neonato e durante quei tre mesi tutti lo sapevano, il sergente aveva cercato invano di sedurre la fanciulla, cosicchè nella sua deposizione appariva evidente un atto di vendetta. E bisogna dire che ella fosse veramente pulita come uno specchio se malgrado l'odore di fattucchiera che spandeva intorno, i paesani avevano deposto così unanimi in suo favore ed il cappellano istesso, un vecchio andato di poi diritto in paradiso, giurando sui sacri evangeli, l'aveva proclamata la più casta e pia e benefica vergine di questo mondo.

      Quando scesi all'osteria e la padrona mi corse incontro a festeggiarmi, poco mancò non tornassi indietro sul momento. Nessuna delle sue fattezze poteva dirsi particolarmente spiacente ma insieme componevano una figura indimenticabile a cagione del ribrezzo che ne derivava. Io domandai più tardi a me stesso se la sua somiglianza col busto di cera avesse contribuito a tale effetto. Lo somigliava infatti, se non che i suoi capelli erano neri e quelli del busto di una tinta dorata pallida come li hanno certe ragazze giovanissime che poi gli oscurano invecchiando. Ma dovetti riconoscere che ciò non era, perchè vidi la padrona assai prima che il busto e questo non accrebbe la sensazione disgustosa ricevuta dalla vista di quella, tanto essa aveva subito raggiunto la maggiore possibile intensità. Era una donna alta, asciutta, la fronte spaziosa nettamente incorniciata da due righe di capelli neri appiastrati e grassi per l'unto e scendente al resto del viso senza interruzione, poichè non recava altro segno delle sopracciglia che un leggiero arrossamento della pelle, evidente indizio di pelo biondo o rossastro ed in lei quindi, sicura denunzia di parrucca. Era pallida di un pallore muto e dissanguato che non si coloriva nemmeno sulle labbra e sul quale le rughe apparivano così violente da parere incise per entro tutto lo spessore della carne. Si reggeva imperiosa sul busto sottile di giovinetta e serbava nell'andatura quel vezzo contadinesco che consiste nell'irrigidire leggermente la gamba appena fatto il passo, locchè dà una scioltezza saltellante a tutta la persona. I suoi modi, l'atteggiarsi, le parole e sopratutto gli sguardi tradivano un proposito sempre presente di parere disinvolta, ed insieme una dolorosa e puerile timidità. Appena fissata chinava gli occhi con una espressione rapidissima di sbigottimento e li risollevava di scatto per piantarveli in viso, tesi e corrucciati dallo sforzo. In casa attendeva a tutte le faccende, non avendo domestica. Mentre cenava era un continuo salire e scendere dalla cucina alla camera da pranzo; le sue scarpe di panno non facevano scricchiolare pure un gradino della scala nè una tavola del corridoio, di modo che appariva improvvisa come un fantasma. In fin di cena avendo io avanzato mezzo il vino della bottiglia, essa, venuta a sedermisi accanto, ne versò due dita in un bicchiere e volle toccare con me augurandomi (Dio che orribile sorriso!) l'amore fedele della mia donna.

      Come fui in letto ed ebbi spento il lume, dopo lo sbattere di qualche uscio e lo stridere di qualche chiavistello, tacque nella casa ogni rumore di esseri viventi; solo saliva dal basso un mormorìo sordo e continuo, che sulle prime attribuii al torrente vicino. Ma a mano a mano che tendevo l'orecchio per accertarmi della sua essenza mi persuadevo che non era rumore d'acqua. L'acqua dei torrenti montani non manda il suono eguale che sogliono i larghi fiumi delle pianure; a volte leva la voce, a volte l'affievolisce, di quando in quando sembra mutare di letto e precipitando per nuovi dirupi schiaffeggiare delle roccie non mai prima bagnate, poi torna al corso di poc'anzi se non che ad un tratto diresti che apra dei gorghi improvvisi e vi si sprofondi borbottando. Talora la sua voce è così fioca che pare silenzio; allora occorre un atto determinato della volontà per udirla e quando l'odi credi discernere nel grave suono i suoni minuti di ogni onda e di ogni goccia e l'illusione è così perfetta che ti domandi se non piove. Il mormorio che sentivo era invece senza fine eguale, non si allargava in ondate per l'aria, non mi giungeva pei vetri della finestra; saliva insidioso su per le muraglie della casa e usciva certo da un luogo chiuso e profondo. Che fastidio mi dava! Accesa dagli insoliti spettacoli di quella sera: la valle stretta e desolata, il paese deserto, le case mute, le finestrucole rischiarate da una luce bianca di fuoco fatuo, l'osteria fredda e vasta come un convento e il racconto dell'infanticidio e quella donna e quel viso di cera morto che mi aveva fatto spegnere il lume perchè non ne reggevo la vista; la mia fantasia creava immagini di una realtà spaventosa. Tutte le paure infantili, tutti gli orribili racconti di cui mi ero compiaciuto in passato, tutti gli errori vinti, tutti i terrori fantastici che torturano la mente in seguito a qualche lutto domestico, tutte le viltà dell'anima, tutte le infermità dell'intelletto, insorgevano confusamente, rabbiosamente contro i consigli della ragione e la debellavano. Non c'era verso che potessi durare per la via delle spiegazioni semplici ed ovvie, che anzi ragionavo il mio errore con una pacatezza sofistica della quale, pure avvertendola, non mi sapevo liberare. Messo in sospetto di fatti anormali, mi ripugnava, come cosa contraria alla mia dignità, riconoscere da cause ordinarie lo smarrimento in cui ero caduto; non mi domandavo già: Donde viene tale mormorio? ma bensì: Perchè tremo tutto e sudo freddo? e cercando di proporzionare i fatti alle sensazioni anzichè queste a quelli, aggravavo sempre di più lo stato morboso da cui intendevo levarmi.

      Nella febbre che mi agitava, credetti persino che il mormorìo provenisse dalla campana di vetro posata sul canterano, che fosse un filo di voce uscito dalle labbra cadaveriche di quel mostro che vi stava rinchiuso, che le pareti di vetro mi impedissero di discernere le parole e che queste turbinando nel poco spazio serrato perdessero accento e cadenza per convertirsi nel suono lugubre e confuso che mi atterriva.

      Accesi il lume.

      La stanza aveva due usci; uno metteva nel corritoio e l'altro in un camerone attiguo, vuoto. Mi levai, posai la candela nel vano di questo secondo uscio, mi precipitai al canterano, presi la campana col suo piede fra le braccia: i ricci biondi agitati ballarono sinistramente sul viso terroso, spolverandone i rilievi; la cuffia cannellata tremò tutta ed io portai correndo il mio grottesco fardello fino all'angolo più discosto della camera vuota. Con quante cautele lo deposi a terra! Se la campana, l'unico e fragile ostacolo che mi difendeva da quel cadavere mutilato, si fosse infranta, sarei morto di paura. Poi tornai rinculoni alla mia stanza, chiusi l'uscio a chiave e mi sentii sollevato.

      Ma il mormorìo seguitava.

      Apersi la finestra. La brezza gelida della notte mi rincorò; d'altronde il rumore naturale dell'acqua corrente, tornò a parermi per un momento la sola causa delle mie paure. Ma quando il freddo m'ebbe fatto rinchiudere i vetri, ecco di nuovo salire, rasente i muri la nota bassa, grave, la nota umana che mi atterriva. Allora mi vestii alla meglio ed uscii nel corritoio. Le tavole avvezze ai passi muti delle scarpe di panno, scricchiolavano e gemevano come nuove nel morto silenzio della casa. Infilai la scala. Le porte delle stanze al primo piano erano tutte spalancate e per la bocca rischiarata sugli orli mostravano profondità oscure piene d'insidie. Passando, la mia candela gettava sprazzi di luce sui mobili e improvvisava forme fantastiche. Di quando in quando sostavo per avvertire il mormorìo, a volte lo perdevo, ma fatti pochi passi tornava a colpirmi insistente, monotono come prima.

      Giunsi al piano terreno. Nella cucina biancheggiava un chiarore, smorto, diffuso, meno intenso che il riflesso delle nevi nelle notti serene d'inverno, immobile come le luci il cui centro è lontano. Il mormorìo invece era vicinissimo ma la sua causa durava misteriosa, anzi era accresciuta di mistero.

      Risoluto a scoprirla, spensi il lume a fine di guidarmi col chiarore che avevo offuscato. Esso proveniva da un immenso camino dalla larga cappa sporgente che teneva tutta la parete di fronte all'entrata. Sotto la cappa, nel muro di fianco si apriva un usciolo basso e stretto che metteva ad una di quelle camerette che in Piemonte chiamano Peilo.

      Là rischiarate da una lucerna ad olio appesa alla parete, stavano due persone: la padrona dell'osteria ed un vecchio di forme atletiche, questi abbandonato su di un inginocchiatoio in atto di grande sfinimento, quella ritta in piedi daccanto a lui, con un libro in mano che teneva levato all'altezza della lucerna per vederci. Tutti e due mi voltavano la schiena. La donna terminava allora di leggere l'ultimo mistero doloroso al quale seguiva la fila delle Ave Marie e dei Pater che essa recitava con voce chiara e con misurata lentezza, mentre il vecchio li masticava confusi, come avesse la lingua tarda e spessa e la bocca bavosa. Alla filza delle Ave Marie, seguirono il requiem e le litanie della Madonna che apparivano dedicate a qualche determinata persona, poichè il ritornello ribatteva sempre: ora [pg!70] pro eo, ora pro eo. – A volte, la voce del vecchio raggomitolato nell'inginocchiatoio accennando a spegnersi, la donna levava la sua, dandole non so quale accento autoritario, così imperioso