Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

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Название Novelle e paesi valdostani
Автор произведения Giacosa Giuseppe
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
Год выпуска 0
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l'ultimo Oremus, la vecchia senza rifiatare intonò il Miserere, ma l'uomo si levò in piedi barcollando e disse:

      – Ho sete.

      La donna gli pose una mano sulla spalla premendovi finchè non l'ebbe rimesso ginocchioni; ma oramai era sola a pregare; l'altro, briaco fradicio, pareva dovesse abbisciarsi e ruzzolare in terra ad ogni momento.

      La vecchia lo scoteva, lo sollevava, lo reggeva, lo stimolava con pugni e tornava sui versetti già recitati per farglieli ripetere parola per parola: – Voglio salvarti, voglio salvarti tuo malgrado, contro di te.

      E lo chiamava con parole di vituperio, lo guardava coll'occhio fosco, ardente, saettante uno sprezzo mortale ed una inesorabile fermezza. E il vecchio, dominato, quasi snebbiato da quegli sguardi, balbettava finchè questi lo tenevano soggiogato, balbettava parole latine informi e slabbrate, ed appena essa metteva gli occhi sul libro, si accasciava e taceva un'altra volta. A un punto parve volersi rivoltare, urlò un Cristo battendo un gran pugno sull'inginocchiatoio ma non si resse e ricadde. Un'altra volta allungò la mano verso una bottiglia (certo una bottiglia d'acquavite) posata lì presso su di un tavolino a mezza luna, ma la vecchia fu più lesta a ghermirla e gli disse:

      – Prega prima, dopo berrai.

      Egli le si rivolse supplichevole, giungendo a stento le mani colle mosse esagerate e violenti degli ubriachi ed essa senza badargli ripigliò l'inno, grave, immobile, lasciando piombare ogni parola come una minaccia e contentandosi oramai dell'assentire che l'altro faceva col capo e del grugnito che mandava frettoloso alla fine di ogni versetto, per non essere colto a tacere.

      Terminato il Miserere la donna gli versò mezzo bicchiere d'acquavite e glie lo porse:

      – A domani, ricordati, ce ne sarà dell'altra.

      Egli tracannò d'un getto tutto il liquore e disse beato:

      – Buono! Buono! Com'è buono!

      Poi la donna lo prese per un braccio, staccò la lucerna dalla muraglia e tutti e due mossero per uscire. Io mi gettai nell'angolo oscuro del focolare, li vidi traversare la cucina, sentii tirare il chiavistello della porta di fuori e una canzonaccia rauca e trascinata mi annunziò che il briaco era all'aperto nel gran silenzio notturno della via.

      La vecchia tornò indietro mi ripassò davanti una seconda volta senza vedermi, riappese la lucerna alla parete e si abbandonò sull'inginocchiatoio in atto di dolore mortale senza lacrime.

      Quando risalii nella mia stanza il mormorio era cessato, ma non potei chiudere palpebre in tutta la notte. Io mi sono fitto in mente che la padrona dell'osteria vada espiando così coll'antico amante e complice, l'antico dolce peccato e il delitto d'infanticidio di che il tribunale l'aveva assolta per difetto di prove; che essa attiri l'indurito briacone alla preghiera, colla promessa di abbondanti libazioni, che gli affretti la morte in questo mondo per assicurargli il perdono e la salvezza nell'altro. – Ma io sono un romantico impenitente e forse calunnio quella disgraziata.

      LA MINIERA DI COGNE

      In val di Cogne presso il Gran Paradiso, che è il maggior gruppo di montagne interamente italiano, c'è una delle più ricche miniere di ferro di tutta Italia. Delle più ricche, non delle più produttive, perchè mentre il minerale vi si trova quasi allo stato nativo, il suo giacimento è in posizione così elevata e così discosto dalle strade carreggiabili da renderne disagevole e costosissimo l'esercizio. Perciò, deluse più volte le speranze e stancata la costanza dei suoi cultori, abbandonata e ripresa secondo fioriscono o stagnano le altre industrie paesane, la miniera di Cogne, che sarà un giorno la prima ricchezza di quei luoghi, è ora il segno a cui riconoscerne gli alterni gradi di miseria, l'ultima disperata risorsa nelle annate cattive.

      Collocata pressochè in cima di una montagna chiamata la Creia, gli alpigiani vi salgono per un interminabile sentiero fra boschi e prati, e ne scendono, anzi ne precipitano i carri del minerale per una stradaccia spaventosa, simile ai canaloni che i grossi massi incidono rovinando per l'erta e squarciando il terreno.

      Il luogo ha l'austera bellezza dei bei luoghi alpini. Ai piedi, nella valle quieta e verde, la chiesa e gli sparsi casolari di Cogne: dirimpetto, la mole del Gran Paradiso e le ghiacciaie della Tribolazione, a sinistra la scogliera color di rame della Nouva, a destra la Grivola curva e tagliente come una scimitarra, e dove la valle di Cogne scende in quella d'Aosta, laggiù nel fondo lontano, irradiante splendori, la vetta sovrana del Monte Bianco.

      La miniera di Cogne non spinge gallerie nel monte e non vi affonda pozzi; non è oscura nè afosa. La vena essendo a fior di roccia questa è scavata a grotta colla bocca smisurata aperta al sole. Dal prato si vedono gli atteggiamenti e i movimenti dei minatori. Nella grotta spaziosa e chiara, ogni operaio attacca la roccia a capriccio dove le asperità e le screpolature prodotte dagli scoppi del giorno innanzi, danno più facile presa al piccone o agevolano l'azione dello scalpello, dove non batte il sole o cala il vento o sporgono scaglioni o non stagnano acque. A misura che la caverna va internandosi, allarga la bocca e inghiotte più aria e più raggi. La montagna assalita in poco spazio in varî punti, mostra tutte insieme le sue immani ferite, le pareti scabre gettano ombre e spezzano raggi, hanno faccie lucentissime di diamante e fenditure sottili come tagli di lama affilata. Gli assalitori, tutti in vista, danno per il numero l'idea di un accanimento rabbioso, di una smania di farla presto finita; mentre altrove la disciplina li assimila a macchine, qui la libera elezione del punto dove percotere fa apparire l'opera di ognuno quale essa è veramente, volente e cosciente: essi sanno dove la gran vittima inerte ha la fibra meno tenace, dove un sol colpo più squarcia e più ne morde le viscere e quivi infuriano a mazzate che li fanno gemere, che fendono l'aria sibilando, e ad ogni colpo, lo scalpello respinto dalla durezza del fondo erompe crocchiando dall'unta petrosa guaina.

      La mattina il sole vi giunge tardi. – La caverna puzza ancora di polvere per le mine scoppiate la sera innanzi: i guazzi stagnanti nel fondo hanno una crosta di ghiaccio anche nei giorni della canicola. I minatori smarriti nella penombra invernale si confondono colla roccia, sembrano macchie grigie sul fondo grigio; l'uniformità del colore attenua la violenza dei movimenti e li fa parere pigri come di persona intirizzita. A quell'ora il lavoro sa di pena, una pena lunga ed oscura che sconti qualche grave colpa tenebrosa. Martellano in silenzio: questi solitari a colpi di piccone, quelli appaiati reggendo uno colle due mani il ferro da mina e l'altro affondandolo a mazzate. A vederli dalla bocca della grotta, i loro movimenti hanno una rigidità automatica. A ogni colpo di mazza, quegli che regge il ferro, abbassa le palpebre e gira di fianco la testa come fanno i malinconici magot chinesi, e l'atto è così normale, e combina con tanta precisione col piombare della mazzata che par di sentire scricchiolare il congegno che lo produce.

      L'alba li raccoglie e l'aurora li trova al lavoro. E via per dell'ore, muti, instancabili, senza un minuto di posa, perchè il gelo non incolli loro alla pelle la camicia inzuppata di sudore. Intorno, la montagna è deserta. Le mandrie del vicino casolare cercarono i pascoli soleggiati e da quelli mandano ai reclusi lo scampanellare dell'accordo e i muggiti dati al cielo aperto e ai rinascenti tepori. Come tarda il sole! Sulla montagna di rimpetto, le cime le roccie, i nevati, le ghiacciaie, le foreste, ne ridono tutte e si scaldano e fumano di vapori mentre là nell'antro impigrisce il crepuscolo mattinale e i colpi delle mazze d'acciaio battono i minuti delle ore eterne. Gran cammino e grandi faccende deve fare il sole prima di giungere alla miniera! Deve scendere passo passo la costa orientale della montagna dirimpetto, calarsi per le ghiacciaie, filtrare nel fitto delle pinete, incidere le forre, inargentare i neri dirupi. Poi, come la valle lo attira, deve cercarne il fondo, accendere come un faro la punta del campanile, increspare i raggi sul tetto della chiesa tutto ondato di muschi, nelle case che gli protendono la facciata petrosa rigare di strisce dorate il buio afoso delle stanze e fare incandescente l'acqua del fiume che la notte lasciò grigio ed opaco e suscitare faville e colorire iridi nelle cascate. E poi ancora, inerpicarsi su per l'erta occidentale della Creia e toccarne la cima quando già da per tutto è vinta la mattutina temperanza di vapori. Allora, quando il primo filo luminoso orla il margine dell'altipiano dove giace la miniera e sembra una biscia lunghissima che lo fasci, i minatori smettono l'opera dopo cinque ore di fatica e lasciano la grotta per sdraiarsi sfiniti nella piena luce del sole.

      D'allora in poi la giornata è gaia e l'opera lieve. Col sole entrano nella