Название | L'umorismo |
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Автор произведения | Luigi Pirandello |
Жанр | Документальная литература |
Серия | |
Издательство | Документальная литература |
Год выпуска | 0 |
isbn | 4064066069018 |
L'osservazione in fondo è giusta; ma — piano con la voce pubblica! — vorremmo dire al D'Ancona. «Dopo la parola romanticismo, la parola più abusata e sbagliata in Italia (in Italia soltanto?) è quella di umorismo. Se fossero realmente umoristi gli scrittori, i libri, i giornali battezzati con questo nome, noi non avremmo nulla da invidiare alla patria di Sterne e di Thackeray o a quella di Gian Paolo e di Heine. Non si potrebbe uscir di casa senza incontrar per la strada due o tre Cervantes e una mezza dozzina di Dickens... Vogliamo solo notare fin da principio che vi è una babilonica confusione nell'interpretazione della voce umorismo. Per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere: il comico, il burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale: — la caricatura, la farsa, l'epigramma, il calembour si battezzano per umorismo: come da un pezzo si costuma di chiamare romantico tutto ciò che vi è di più arcadico e sentimentale, di più falso e barocco. Si confonde Paul de Kock con Dickens, e il visconte d'Arlincourt con Victor Hugo».
Questo notava Enrico Nencioni, già fin dal 1884, in un articolo su la Nuova Antologia intitolato appunto L'Umorismo e gli Umoristi, che fece molto rumore.
Non si può dir veramente che la voce pubblica in tutto questo lasso di tempo, si sia ricreduta. Anche oggi, per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere. Ma, ripeto, perchè in Italia soltanto? Da per tutto! Il volgo non può intendere i segreti contrasti, le sottili finezze del vero umorismo. Si confondono anche altrove la caricatura, la farsa bislacca, il grottesco con l'umorismo; si confondono anche là dove al Nencioni sembrava (e non a lui soltanto) che l'umorismo stèsse di casa: non ha forse nome d'umorista Mark Twain, i cui racconti sono, secondo la sua stessa definizione «una collezione di eccellenti cose, prodigiosamente divertenti, che strappano il riso anche dai volti più ingrugniti?».
Il giornalismo, un certo giornalismo si è impadronito della parola, l'ha adottata e, sforzandosi di far ridere più o meno sguajatamente a ogni costo, l'ha divulgata in questo falso senso.
Cosicchè ogni vero umorista prova oggi ritegno, anzi sdegno a qualificarsi per tale. — Umorista, sì, ma... non confondiamo, — si sente il bisogno d'avvertire: — umorista nel vero senso della parola.
Come dire:
— Badate ch'io non mi propongo di farvi ridere facendo sgambettar le parole.
E più d'uno, per non passar da buffone, per non esser confuso coi centomila umoristi da strapazzo, ha voluto buttar via la parola sciupata, abbandonarla al volgo, e adottarne un'altra: ironismo, ironista.
Come da umore, umorismo; da ironia, ironismo.
Ma ironia, in che senso? Bisognerà distinguere, anche qui. Perchè c'è un modo retorico e un altro filosofico d'intendere l'ironia.
L'ironia, come figura retorica, racchiude in sè un infingimento che è assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. — Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contraddizione dell'umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale, come vedremo, e di ben altra natura.
Quando Dante aggrava la riprensione eccettuando dal numero dei ripresi chi è più riprensibile, come per la brigata dei prodighi matti, allor che esclama: ... Or fu giammai — Gente sì vana? e un dannato risponde: — Tranne lo Stricca... E tranne le brigata; oppure là dove dice:
Ogni uom v'è barattier fuor che Bonduro;
o quando rammenta il bene per esacerbare il sentimento del male, come fanno i diavoli al barattier lucchese:
... Qui non ha luogo il Santo Volto
Qui si nuota altrimenti che nel Serchio;
o quando a chi parla fa rammentare i proprii vantaggi nell'usarli aspramente, come fa quell'altro diavolo che toglie a S. Francesco l'anima d'un reo, argomentando teologicamente su la penitenza, per modo che quell'anima presa da lui si sente dire:
Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi;
o quando esclama:
Godi, Firenze, poichè sei sì grande;
oppure:
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa digression che non ti tocca
. . . . . . . . . . . . . . . .
Or ti fa lieta, che tu hai ben onde;
Tu ricca, tu con pace, tu con senno...
dà mirabili esempi di ironia nel senso retorico della parola: ma nè qui, nè in altro punto, del resto, della Comedia, non è traccia d'umorismo.
Un altro senso, dicevamo, e questo filosofico, fu dato alla parola ironia in Germania. Lo dedussero Federico Schlegel e Ludovico Tieck direttamente dall'idealismo soggettivo del Fichte; ma deriva in fondo da tutto il movimento idealistico e romantico tedesco post-Kantiano. L'Io, sola realtà vera, spiegava Hegel, può sorridere della vana parvenza dell'universo: come la pone, può anche annullarla; può non prender sul serio le proprie creazioni. Onde l'ironia: cioè quella forza — secondo il Tieck — che permette al poeta di dominar la materia che tratta; materia che si riduce per essa — secondo Federico Schlegel — a una perpetua parodia, a una farsa trascendentale.
Trascendentale più d'un po', osserveremo noi, questa concezione dell'ironia: nè, del resto, se consideriamo per poco donde ci viene, poteva essere altrimenti. Tuttavia essa ha, o può avere, almeno in un certo senso, qualche parentela col vero umorismo, più stretta certamente che non l'ironia retorica, da cui, in fondo, tira tira, si potrebbe veder derivare. Qui, nell'ironia retorica, non bisogna prender sul serio quel che si dice; lì, nella romantica, si può non prender sul serio quel che si fa. L'ironia retorica sarebbe, rispetto alla romantica, come quella famosa rana della favola, la quale, trasportata nel macchinoso mondo dell'idealismo metafisico tedesco e abbottandosi qua più di vento che d'acqua, fosse riuscita ad assumere le invidiate proporzioni del bue. L'infingimento, quella tal contraddizione fittizia, di cui parla la retorica, è diventata qua, a furia di gonfiarsi, la vana parvenza dell'universo. Ora ecco: se l'umorismo consistesse tutto nella puntura di spillo che svescia quella rana abbottata, ironia e umorismo sarebbero press'a poco la stessa cosa. Ma l'umorismo, come vedremo, non è tutto in questa puntura di spillo.
Al solito, Federico Schlegel non fece altro qui che esagerare idee e teorie altrui: oltre all'idealismo soggettivo del Fichte, la famosa teoria del gioco esposta dallo Schiller nelle 27 lettere Ueber die aesthetische Erziehung des Menschen.
Il Fichte aveva voluto, in fondo, compire la dottrina kantiana del dovere: dicendo che l'universo è creato dallo spirito, dall'«Io», che è anche divinità, l'anima dell'essenza del mondo, che genera tutto ed è impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sè ragione, libertà, moralità; aveva voluto dimostrare il dovere dei singoli uomini di sottomettersi al volere della totalità e di tendere al culmine dell'armonia morale.
Ora, quest'«Io» del Fichte diventò l'«io» individuale, il piccolo «io» strambo del signor Federico Schlegel, che con un cannellino e un po' d'acqua saponata si mise allegramente a gonfiar bolle di sapone: vane parvenze d'universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il giuoco. Povero Schiller! Non poteva esser falsato in modo più indegno il suo Spieltrieb. Ma il signor Federico Schlegel prese alla lettera le parole: «der Mensch soll mit der Schöneit nur spielen, und er soll nur mit der Schöneit spielen. Denn, um es endlich auf einmal herauszusagen, der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung