Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13. Edward Gibbon

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Название Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13
Автор произведения Edward Gibbon
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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alcuni Cristiani che gli avidi e sacrileghi Musulmani adoperavano, e certamente senza scrupolo, i frantumi di sontuose chiese poste in rovina, e perfino le colonne di marmo consagrate all'Arcangelo S. Michele, col volersi opporre, ricevettero la palma del martirio dalle mani stesse dei distruttori. Costantino avea chiesta una guardia turca che proteggesse i campi e i ricolti de' sudditi greci; e veramente Maometto questa guardia gli concedè, ma comandandole per prima cosa di lasciar pascolare liberamente i muli e i cavalli del campo, e di proteggere i Turchi contro i nativi, ogni qualvolta i secondi si avvisassero di assalire i primi. Accadde una notte che gli uomini del seguito d'un Capo ottomano aveano mandati i lor cavalli in mezzo a un campo di biade mature. Irritati i Greci dal danno, e più dall'insulto, vennero cogli Ottomani ad una rissa, in cui perirono parecchi individui dell'una e dell'altra nazione. Fu fatto su di ciò ricorso a Maometto, che n'ebbe massima gioia, cogliendo questa opportunità per inviar truppe che sterminassero gli abitanti di quel villaggio. I colpevoli, se tali poteano dirsi, s'erano dati alla fuga; ma quaranta agricoltori che, affidati alla propria innocenza, attendevano tranquillamente alla mietitura, caddero vittima delle scimitarre ottomane. Fino a quel momento, Costantinopoli ricevea fra le sue mura que' Turchi che per motivo di commercio, o di curiosità vi si traevano; ma a questo annunzio che accrebbe a dismisura il terrore, il Sovrano ordinò se ne chiudesser le porte; pure sempre lusingato dalla speranza di pace, mise liberi, il terzo giorno, i Turchi che vi si trovavan racchiusi75, inviando a Maometto un ultimo messaggio, da cui traspirava la ferma rassegnazione di un cristiano e di un guerriero. «Poichè nè i giuramenti, nè i Trattati, nè la stessa sommessione possono assicurare la pace, egli scriveva al Sultano, prosegui gli atti della tua sacrilega nimistà. Solo in Dio è posta la mia speranza. Se gli piace di ammollire il tuo cuore, un sì felice cambiamento mi arrecherà gioia; se egli vuole che Costantinopoli sia tua, mi sottometterò senza lagnarmene ai suoi santi voleri. Ma fin che il Giudice de' Principi della Terra non avrà pronunziato fra noi, io devo vivere e morire difendendo il mio popolo». Maometto diè tal risposta che lo mostrava risoluto inesorabilmente alla guerra. Compiuto essendo e munito a dovere il novello Forte, vi pose un vigilante Agà, e quattrocento giannizzeri incaricati di sottoporre a tributo tutte le navi che, senza distinzion di paese, si trovassero a gittata delle nuove batterie; indi ritornò ad Andrinopoli. Una nave veneziana che ricusava obbedire ai nuovi dominatori del Bosforo, con un solo sparo di cannone fu mandata a fondo. Il capitano e trenta marinai si salvarono nel palischermo; ma condotti indi alla Porta carichi di catene, il loro condottiero venne impalato, eglino decollati: lo storico Duca narra di avere veduti a Demotica i loro corpi esposti alle belve76. L'assedio di Costantinopoli venne differito alla successiva primavera; intanto un esercito ottomano marciò nella Morea per dar faccende ai fratelli di Costantino. In questi calamitosi giorni (A. D. 1453), uno de' Principi Paleologhi, il despota Tommaso, ebbe la sorte, o il disastro di vedersi nascere un figlio. «Ultimo erede, dice l'afflitto Franza, dell'ultima scintilla dell'Impero romano77».

      I Greci ed i Turchi trascorsero il verno nella inquietudine e nell'ansietà; agitati i primi dal timore, fatti impazienti i secondi dalla speranza; e gli uni intesi agli apparecchi di difesa, gli altri a quelli d'assalto; ma più fortemente erano compresi da questi sentimenti, che per diverso motivo agitavano gli animi de' due popoli, i loro Imperatori, l'uno che temea di perder tutto, l'altro che ad acquistar tutto agognava; sentimenti che rendea più vivi in Maometto l'ardore della giovinezza e la violenza della sua indole. Intanto che impiegava l'ore di passatempo ad Andrinopoli78 nel fabbricare il palagio Gehan Numa (la lanterna del Mondo), edifizio che ad altezza prodigiosa venne innalzato, i suoi pensieri non si dipartivano dal divisamento di conquistare la città de' Cesari. Alzatosi verso l'ora della seconda veglia della notte, mandò pel primo Visir; il messaggio e l'ora, l'indole del principe e i rimbrotti di una non innocente coscienza spaventavano non poco Calil-Baza, il quale, stato confidente di Amurat, fu anche tra coloro che consigliarono di richiamarlo al trono. Vero è che Maometto, all'atto di cingere la Corona, lo avea confermato nella carica di Visir colmandolo di apparenti favori; ma il vecchio Ministro non ignorava di camminare sopra un diaccio fragile e sdruccioloso, che potea rompersegli sotto i piedi, e in un abisso precipitarlo. L'affezione, forse innocente, dimostrata da questo Visir ai Cristiani gli avea, sotto il Regno trascorso, acquistato l'odievole nome di Gabur Ortascì, o di fratel balio degl'Infedeli79. Dominato dall'avarizia, mantenea col nemico una venale corrispondenza che fu scoperta e punita dopo la guerra. Nella notte in cui ricevè l'ordine di trasferirsi presso il Sultano, abbracciò la moglie e i figli, paventando di non più rivederli; indi riempiuto di piastre d'oro un calice, corse al palagio, ove prostratosi dinanzi a Maometto, gli offerse, giusta l'uso orientale, quell'oro, come lieve tributo e pegno di sommessione e di gratitudine80. «Non voglio, il Sultano gli disse, riprendermi quello che ti ho donato, ma piuttosto accumulare sul tuo capo nuove beneficenze. Però adesso pretendo da te un dono, che mi sarà più utile e che vale ben più del tuo oro; ti chiedo Costantinopoli». Riavutosi dalla sorpresa il Visir, gli rispose: «quel medesimo Dio che ti ha conceduto sì gran parte dell'Impero romano non te ne ricuserà la Capitale, e i pochi dominj che le vanno or congiunti. La Providenza dell'Altissimo e il tuo potere me ne assicurano; i tuoi fedeli schiavi ed io sagrificheremo i nostri giorni e i nostri averi per eseguire la tua volontà.» «Lala81 (vale a dire mio precettore,) disse il Sultano, vedi tu quest'origliere? questa notte nelle mie agitazioni non ho fatto che mandarlo da una banda e dall'altra. Temi l'oro e l'argento dei Romani; del rimanente, noi vagliamo più di loro alla guerra, e, col soccorso di Dio e del Profeta, non tarderemo ad impadronirci di Costantinopoli.» Per indagar l'animo de' suoi soldati, ei trascorrea sovente le strade solo e travestito, nè era cosa priva di rischio l'aver riconosciuto il Sultano, quando agli occhi del volgo volea nascondersi. Molte ore d'ozio impiegava a delineare la pianta di Costantinopoli, a disputare co' suoi generali ed ingegneri sui luoghi ove conveniva innalzare le batterie, d'onde fosse meglio incominciare l'assalto, o dar fuoco alle mine, o applicare le scale. Durante il giorno, si provavano le fazioni e gli stratagemmi che il Sultano avea ideati la notte.

      Nell'esaminare gli strumenti di distruzione, portava sollecita attenzione alla terribile scoperta fatta recentemente dai Latini, onde l'artiglieria di Maometto superò quella dell'altre nazioni d'allora. Un fonditor di cannoni, danese o ungarese, che trovava appena il suo vitto al servizio de' Greci, passò a quello de' Turchi, e largamente nel compensò il Sultano, rimasto contento fin dalla prima risposta che cotest'uomo erasi affrettato di dare ad una sua interrogazione. «Posso io avere un cannone fornito della forza di mandare una palla o un sasso che basti a rovesciare le mura di Costantinopoli?» – «Mi è nota, rispose il fonditore, la fortezza di queste mura, ma quand'anche fossero più salde di quelle di Babilonia, potrei metter contr'esse una macchina di tanto forte gittata che le buttasse a terra; sta poi a vedere, se i vostri ingegneri saprebbero appuntare e collocar questa macchina». Immediatamente, dopo una tale risposta, Maometto fece mettere una fonderia ad Andrinopoli; e provvedutosi quanto metallo a ciò abbisognava, in capo a tre mesi, il fonditore, che nomavasi Urbano, ebbe terminato un cannone di bronzo di una smisurata, e quasi incredibile grandezza. Il calibro era, dicesi, di dodici palmi, e lanciava una palla di pietra che oltre a sei quintali pesava82. Fu scelto dinanzi al nuovo palagio un vano di spianato per provare la nuova macchina; e affine di prevenire le infauste conseguenze del terrore che il primo sparo della medesima avrebbe incusso, venne avvertito il pubblico, un giorno prima di mettere il cannone in atto. Lo scoppio fu udito a una distanza di cento stadj all'intorno. Per trasportare questa macchina struggitrice, vennero congiunti insieme trenta carri, a tirare i quali sessanta buoi furono adoperati; dugento uomini stavano ad entrambi i lati, per mantenere in equilibrio e sostenere questa enorme massa, sempre in procinto di rotolarsi, or da una banda, or dall'altra; dugento cinquanta marraiuoli marciavano innanzi per agevolarle il passaggio e riparare le strade ed i ponti; onde fu d'uopo di due mesi circa di lavoro per far fare cencinquanta miglia alla macchina. Un arguto Filosofo83 deride a tal proposito la greca credulità, giustamente osservando che non giova mai il fidarsi troppo alle esagerazioni de' vinti. Giusta il calcolo istituito



<p>75</p>

Fra i Turchi trovatisi a Costantinopoli, quando ne furono chiuse le porte, eranvi alcuni paggi di Maometto, sì convinti dell'inflessibil rigore del lor padrone, che chiesero venisse loro tagliata la testa, poichè volevansi ad essi impedire i modi di tornare al campo prima del tramontare del Sole.

<p>76</p>

V. Duca (c. 35). Franza (l. III, c. 3), che avea navigato sul vascello veneto, ne riguarda siccome un martire il Capitano.

<p>77</p>

Auctum est Palaealogorum genus, et imperii successor, parvaeque Romanorum scintillae haeres natus, Andraeas, ec. (Franza, l. III, c. 7). Espressione energica ispirata dal dolore.

<p>78</p>

V. Cantemiro, p. 97, 98.

<p>79</p>

Il presidente Cousin traduce il vocabolo Συντροφος, Coeducato, padre, balio. Egli segue, è vero, la versione latina, ma nella sua fretta, ha trascurata la nota, ove Ismaele Boillaud (ad Ducam) riconosce e corregge il proprio errore.

<p>80</p>

L'uso di non mostrarsi al Sovrano, o ai superiori, senza offrirgli doni, è antichissimo fra gli Orientali; sembra analogo all'idea de' sagrifizj, più antica ancora e più generale. V. alcuni esempj di questa costumanza presso i Persiani, in Eliano (Hist. Variar., l. I, c. 31, 32, 33).

<p>81</p>

Il Lala de' Turchi (Cantemiro, p. 54) e il Tata dei Greci (Duca, c. 35) vengono dalle prime sillabe che i fanciulli pronunciano; e può osservarsi che queste voci primitive, fatte per indicare i genitori, sono sempre la ripetizione d'una medesima sillaba composta d'una consonante labiale o dentale seguita da una vocale aperta (De Brosses, Mécanisme des langues, t. I, p. 231-247).

<p>82</p>

Il talento attico pesava circa sessanta mine, o libbre (V. Hooper on Ancient Weights Measures, etc.); ma tra i Greci moderni questa denominazione classica è stata applicata ad un peso di cento e di centocinque libbre (Ducange, ταλαντον). Leonardo da Chio misura la palla, o il sasso del secondo cannone: Lapidem qui palmis undecim ex meis ambibat in gyro.

<p>83</p>

V. Voltaire, Hist. génér., c. 91, p. 294, 295. Si sa che questo autore aspirava alla monarchia universale nella letteratura. Onde il vediamo nelle sue poesie pretendere il titolo di astronomo, di chimico, ec., e sollecito di ostentare il linguaggio di tali scienze.