Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13. Edward Gibbon

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Название Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13
Автор произведения Edward Gibbon
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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nulli a fronte dello scontento di Maometto; onde dopo essere stato alla presenza del Sultano steso per terra da quattro schiavi, ricevè cento battiture applicategli con un bastone d'oro107. Essendone indi stata decretata la morte, il vecchio Generale ammirò la clemenza del Sovrano che si contentò di torgli le sue sostanze e mandarlo in esilio. Il soccorso navale che qui abbiamo descritto, ridestò la speranza ne' Greci e divenne una rampogna all'indifferenza dimostrata dalle nazioni occidentali collegate col greco Impero; massimamente in considerando che milioni di Crociati erano venuti in altri tempi a cercare una inevitabil morte ne' deserti della Natolia e fra le rupi della Palestina; e che qui non era sì grave il pericolo, attesa la situazione di Costantinopoli, munitissima per natura contra i nemici, e ai confederati accessibile. Non facea d'uopo d'un troppo rilevante armamento delle Potenze marittime per salvare gli avanzi del nome Romano e mantenere una Fortezza cristiana nel centro del turco Impero. Cionnullostante i tentativi fatti per liberare Costantinopoli si limitarono alla spedizione di questi cinque vascelli; le nazioni lontane non mostrarono cruciarsi nè poco nè assai de' progressi de' Turchi, e l'Ambasciatore ungarese, stavasi in mezzo al campo turco, per dissipare i timori e regolare le fazioni del Sultano108.

      Era cosa difficile pe' Greci l'indovinare i segreti del Divano; cionnullameno i loro autori sono persuasi che una resistenza così ostinata e maravigliosa avesse stancata la perseveranza di Maometto. Vuolsi ch'ei meditasse una ritirata, e che ben presto avrebbe levato l'assedio, se l'ambizione e la gelosia del secondo Visir non avesse prevalso ai perfidi suggerimenti di Calil-Pascià che si mantenea sempre in segreta corrispondenza colla Corte di Bisanzo. Vedea il Sultano l'impossibilità d'impadronirsi della Capitale, a meno di poterla assalire per mare nel tempo stesso che le sue truppe la batterebbero dalla banda di terra; ma come superare il passaggio del porto? La grossa catena che lo chiudea era difesa da otto grandi navigli, da venti più piccioli e da un ragguardevole numero di galee e di battelli; i Turchi, lungi dal vedersi in istato di forzare questo propugnacolo, doveano temere una sortita del navilio greco e una seconda battaglia in aperto mare. In mezzo a tali perplessità, il genio di Maometto concepì e pose ad effetto un disegno di maraviglioso ardimento; quello di far trasportare per terra i suoi legni più leggieri e le sue munizioni dalla riva del Bosforo a quella che guardava la parte più interna del porto, distanza di circa dieci miglia sopra terreno disuguale e coperto di macchie; e poichè era d'uopo radere in passando il sobborgo di Galata, il buon successo dell'impresa, o la morte di tutti i soldati in essa adoperati dependeano dalla colonia dei Genovesi; ma questi avidi mercatanti aspirando al favore di essere soggiogati per gli ultimi, il Sultano fu tranquillo per questa parte, e fece poi che la moltitudine degli operaj supplisse alle scarse cognizioni dei suoi meccanici. Spianata la strada, venne coperta di larghi e saldissimi tavolati, che, a renderli più scorrevoli, venivano unti con grasso di pecora e di bue. Poi per ordine del Sultano, vennero, col ministero di leve e carrucole, tratte fuor dello stretto, portate sopra cilindri e spinte su questi tavolati, ottanta galee o brigantini da cinquanta e da trenta remi, divenuti oziosi come le vele; due piloti stavano al governale e alla prora di ciascun navilio, e i canti e le acclamazioni delle ciurme allietavano questo rilevante lavoro. In una sola notte la flotta de' Turchi s'inerpicò alla collina, attraversò la pianura, venne lanciata nel porto, in un sito ove non trovavasi bastante acqua pe' navigli greci che erano più pesanti. Il terrore che tale impresa portò nell'animo degli assediati e la fiducia che per essa crebbe ne' Turchi, ne fece esagerare il reale vantaggio; questo fatto notorio e indubitabile ebbe a spettatrici entrambe le nazioni, onde gli Storici dell'una e dell'altra l'hanno raccontato109. Gli Antichi hanno più di una volta fatto uso di un simile stratagemma110. Le galee ottomane, mi giova ripeterlo, non erano che grossi battelli. Se raffrontiamo la grandezza de' navigli e la distanza, gli ostacoli e gl'ingegni adoperati per superarli, sono forse state eseguite ai dì nostri111 imprese non meno maravigliose112. Appena Maometto ebbe navi e truppe nella parte superiore del porto, con botti unite da travi e anelli di ferro e coperte da un saldo tavolato, costrusse, ove l'acqua era più angusta, un ponte, o piuttosto un molo largo cinquanta, e lungo cento cubiti. Posto sopra questa galleggiante batteria uno de' maggiori cannoni, le ottanta galee, le truppe e le scale, si avvicinavano a quel sito d'onde i guerrieri latini altra volta aveano presa la città d'assalto. Viene rimproverato ai Cristiani di non avere distrutti questi lavori prima che fossero terminati; ma un fuoco più rilevante rendeva inutili le loro batterie; non quindi è che non tentassero una notte di ardere le galee e il ponte del Sultano; la sola vigilanza di Maometto impedì ad essi di avvicinarsi; onde que' primi legni de' Greci che troppo innoltrati si erano, vennero presi o calati a fondo; e quaranta giovani guerrieri, i più valorosi dell'Italia e della Grecia, furono inumanamente trucidati per ordine di Maometto. L'Imperatore di Bisanzo per parte sua fe' piantare sui baloardi le teste di dugentosessanta prigionieri musulmani, giusta ma crudel rappresaglia che non mitigava l'affanno delle strettezze in cui si trovava. Dopo un assedio di quaranta giorni, nulla potea più differire la caduta di Costantinopoli; poco numerosa di per sè stessa la guarnigione, ridotta era affatto per quel duplice assalto; il cannone degli Ottomani avea distrutte per ogni banda quelle fortificazioni che resistettero per dieci secoli ad ogni impeto di nemici; già più d'una breccia era aperta, e vicino alla porta di S. Romano, quattro torri erano state atterrate dall'artiglieria dei Turchi. Per dar lo stipendio alle truppe, deboli e in procinto di ribellare, Costantino si vide costretto a spogliare i tempj, promettendo di restituire il quadruplo di quanto da essi togliea; azione che ebbesi per sacrilega, e somministrò nuovi soggetti di scontento ai nemici dell'unione delle due Chiese. A tanti mali univasi lo spirito di discordia che vie più indeboliva le forze de' Cristiani; gli ausiliari genovesi e veneziani disputavano scambievolmente per la lor preminenza, e Giustiniani e il Gran Duca, l'ambizione de' quali non aveva estinto il comune pericolo, si mandavano a vicenda le rampogne di perfidi, o di codardi.

      Durante l'assedio, si parlò per più riprese di pace e di capitolazione, e molti messi erano stati spediti dal campo alla città e dalla città al campo113. Le sventure aveano siffattamente scoraggiato l'Imperator greco, che ad ogni condizione sarebbesi sottomesso, purchè la sua religione e il suo diadema fossero stati in salvo. Maometto per parte sua desiderava di risparmiare il sangue de' proprj soldati e più ancora di assicurarsi le ricchezze di Costantinopoli; e con queste brame conciliava i doveri di buon Musulmano offrendo ai gaburi le alternative di farsi circoncidere, o di pagare un tributo, o di rassegnarsi alla morte. Con una somma annuale di centomila ducati sarebbe stata soddisfatta la cupidigia del Sultano, ma non l'ambizione, che al possedimento della Capitale dell'Oriente aspirava. Di fatto propose a Costantino un equivalente di questa città, e la tolleranza ai Greci, o se meglio il bramassero, la facoltà di ritirarsi con sicurezza; ma dopo un'infruttuosa negoziazione, protestò che avrebbe trovato un trono, o una tomba sotto le mura di Bisanzo. Per sentimento d'onore e per tema del biasimo universale, rifuggendo Paleologo persino dall'idea di consegnare agli Ottomani la Capital dell'Impero, risolvette di cimentare gli estremi disastri della guerra. Molti giorni vennero impiegati dal Sultano negli apparecchi dell'assalto, sol differito ancora per la fiducia che egli aveva nell'astrologia, scienza sua prediletta; onde lasciò respirare i Greci sino al dì ventinove maggio, annunziato dagli astri come giorno fausto e predestinato alla presa di Costantinopoli. La sera del ventisette, dopo aver dati gli ultimi ordini, spedì i comandanti de' corpi e gli araldi per tutto il campo, a divulgare i motivi della perigliosa impresa e ad eccitare i soldati ad adempiere con valore i proprj doveri. Il timore è una delle più forti molle morali sotto i governi dispotici; le minacce di Maometto espresse nello stile degli Orientali, annunziavano che se anche i fuggiaschi e i disertori avessero l'ali114, non fuggirebbero alla giustizia inesorabile del Sultano. La maggior parte de' giannizzeri e de' Pascià perteneano per nascita a famiglie cristiane: ma successive adozioni perpetuavano la gloria del nome turco, e a malgrado del cambiamento degl'individui, l'imitazione e la disciplina mantengono lo spirito di una legione, di un reggimento o di un'oda. Prima di portarsi alla pia impresa, i Musulmani vennero esortati a purificare il loro spirito colla preghiera, il corpo con sette abluzioni, e ad astenersi da ogni nudrimento fino alla sera della domane. Uno stuolo di dervis trascorreva



<p>107</p>

Giusta il testo esagerato, o corrotto di Duca (c. 38) questo bastone d'oro pesava cinquecento libbre. Il Bouillaud legge cinquecento dramme, o cinque libbre, peso che bastava per tenere in azione il braccio di Maometto sul corpo del suo ammiraglio.

<p>108</p>

Duca, mal istrutto, a confessione di lui medesimo, degli affari dell'Ungheria, attribuisce a questo fatto un motivo di superstizione. «Gli Ungaresi, dic'egli, credeano che Costantinopoli sarebbe il termine delle conquiste de' Turchi.» V. Franza (l. III, c. 20) e Spondano.

<p>109</p>

La testimonianza unanime di quattro Greci vien confermata da Cantemiro (p. 96), che fonda sugli Annali turchi le sue narrazioni; pur sarei proclive a ridurre la distanza di dieci miglia, e a prolungare l'intervallo d'una notte.

<p>110</p>

Franza cita due esempj di navigli trasportati in tal guisa sull'Istmo di Corinto per uno spazio di sei miglia; l'un, favoloso, riguarda le imprese d'Augusto dopo la battaglia di Azio; l'altro, vero, si riferisce a Niceta, Generale greco del decimo secolo. Il ridetto Storico poteva aggiugnere l'audace impresa operata da Annibale per introdurre nel porto di Taranto le sue navi (Polibio, l. VIII, pag. 749, edizione di Gronov.).

<p>111</p>

Questa fazione fu probabilmente consigliata ed eseguita da un Greco di Candia, che in una occasione di tal natura prestò servigio simile ai Veneziani (Spond., A. D. 1438, n. 37).

<p>112</p>

A questo luogo, intendo favellar soprattutto delle imbarcazioni eseguite dai nostri, nel 1776 e 1777, sui laghi del Canadà, impresa che tanti disagi costò e tornò sì inutile nell'effetto.

<p>113</p>

Calcocondila e Duca non vanno d'accordo sul tempo e i particolari della negoziazione, nè questa essendo stata, o gloriosa, o salutare, il fedele Franza risparmia al suo principe fin la taccia d'aver pensato ad arrendersi.

<p>114</p>

Queste ali (Calcocondila, l. VIII, p. 208) non sono che una figura orientale; ma nella Tragedia inglese Irene, la passione di Maometto esce dai limiti della ragione e perfino dal senso comune.

Should the fierce North, upon his frozen wings,

Bear him aloft above the wondering clouds,

And seat him in the Pleiads' golden chariot —

Thence should my fury drag him down to tortures.

«Quand'anche l'impetuoso vento del Nort sulle sue ali addiacciate li portasse al di sopra delle nubi stupefatte, e li collocasse nel dorato carro delle Pleiadi, il mio furore li toglierebbe di là per consegnarli a nuovi tormenti».

Indipendentemente dalla stravaganza di questo discorso senza conclusione, noterò, 1 Che l'azione de' venti non opera al di là dell'atmosfera. 2 Che il nome, l'etimologia e la favola delle Pleiadi appartengono unicamente al popolo greco (Scholiast. ad Homer. Σ. 686, Eudacia in Ionia, p. 339; Apollodoro, l. III, c. 10; Heyne, p. 229, not. 682), e non han che fare coll'astronomia degli Orientali (Hyde, Ulugbeg. Tabul. in Syntag. Dissert., t. I, p. 40-42; Goguet, Origine des arts, etc; t. VI, p. 73, 78; Gebelm, Hist. du Calendrier, p. 73) studiata da Maometto. 3 Il carro delle Pleiadi non entrò nè nelle scienze dell'astronomia, nè nella favola: temo che il dottore Iohnson abbia confuso le Pleiadi coll'Orsa Maggiore, ossia col Carro, il Zodiaco con una costellazione del Nort.

Αρκτον θ’ ην και αμαξαν επικλησιν καλεουσι

Chiamò l'orsa anche carro.