Uno Nessuno Centomila. Луиджи Пиранделло

Читать онлайн.
Название Uno Nessuno Centomila
Автор произведения Луиджи Пиранделло
Жанр Языкознание
Серия
Издательство Языкознание
Год выпуска 0
isbn 9783963618383



Скачать книгу

la peluria rossiccia. Mia moglie aveva forse il suo tornaconto a lasciarle lì, perché se ne serviva a un bisogno, dando poi loro in compenso o gli avanzi di cucina o qualche abito smesso.

      Acciottolata come la strada, questa corte è tutta in pendìo. Mi rivedo ragazzo, uscito per le vacanze dal collegio, affacciato di sera tardi a uno dei balconi della casa allora nuova. Che pena infinita mi dava il vasto biancore illividito di tutti quei ciottoli in pendìo con quella grande cisterna in mezzo, misteriosamente sonora! La ruggine s’era quasi mangiata fin d’allora la vernice rossigna del gambo di ferro che in cima regge la carrucola dove scorre la fune della secchia; e come mi sembrava triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro che ne parevá malato! Malato fors’anche per la malinconia dei cigolìi della carrucola quando il vento, di notte, moveva la fune; e su la corte deserta era la chiarità del cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là sopra, per sempre.

      Dopo la morte di mio padre, Quantorzo, incaricato di badare ai miei affari, pensò di chiudere con un tramezzo le stanze che mio padre s’era riservate per sua abitazione e di farne un quartierino da affittare. Mia moglie non s’era opposta. E in quel quartierino era venuto, poco dopo, ad abitare un vecchio silenziosissimo pensionato, sempre vestito bene, di pulita semplicità, piccolino ma con un che di marziale nell’esile personcina impettorita e anche nella faccina energica, sebbene un po’ sciupata, da colonnello a riposo. Di qua e di là, come scritti calligraficamente, aveva due esemplari occhi di pesce, e tutte segnate le guance d’una fitta trama di venuzze violette.

      Non avevo mai badato a lui, né m’ero curato di sapere chi fosse, come vivesse. Parecchie volte lo avevo incontrato per le scale, e sentendomi dire con molto garbo: «Buon giorno» o «Buona sera», senz’altro m’ero fatta l’idea che quel mio vicino di casa fosse molto garbato.

                  Nessun sospetto mi aveva destato un suo lamento per le zanzare che lo molestavano la notte e che, a suo credere, provenivano dai grandi magazzini a destra della casa ridotti da Quantorzo, sempre dopo la morte di mio padre, a sudice rimesse d’affitto.

      – Ah, già! – avevo esclamato, quella volta, in risposta al suo lamento.

      Ma ricordo perfettamente che in quella mia esclamazione c’era il dispiacere, non già delle zanzare che molestavano il mio inquilino, ma di quegli ariosi pilliti magazzini che da ragazzo avevo veduto costruire e dove correvo, stranamente esaltato dalla bianchezza abbarbagliante dell’intonaco e come ubriacato dall’umido della fabbrica fresca, sul mattonato rintronante, ancora tutto spruzzato di calce. Al sole ch’entrava dalle grandi finestre ferrate, bisognava chiudere gli occhi da come quei muri accecavano.

      Tuttavia, quelle rimesse con quei vecchi Lando d’affitto, con l’attacco a tre, per quanto impregnati di tutto il lezzo delle lettiere marcite e del nero delle risciacquature che stagnava lì davanti, mi facevano anche pensare all’allegria delle corse in carrozza, da ragazzo, quando si andava in villeggiatura, per lo stradone, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per accogliere e diffondere la festività delle sonagliere. E in grazia di quel ricordo mi pareva si potesse sopportare la vicinanza delle rimesse; tanto più che, anche senza questa vicinanza, era noto a tutti che a Richieri si soffriva il fastidio delle zanzare, da cui comunemente in ogni casa ci si difendeva con l’uso delle zanzariere.

      Chi sa che impressione dovette fare al mio vicino di casa la vista d’un sorriso sulle mie labbra, quando egli con la faccina fiera mi gridò che non aveva mai potuto sopportare le zanzariere, perché se ne sentiva soffocare. Quel mio sorriso esprimeva di certo maraviglia e compatimento. Non poter sopportare la zanzariera, ch’io avrei seguitato sempre a usare anche se tutte le zanzare fossero sparite da Richieri, per la delizia che mi dava, tenuta alta di cielo com’io la tenevo e drizzata tutt’ intorno al letto senza una piega. La camera che si vede e non si vede traverso a quella miriade di forellini del tulle lieve; il letto isolato; l’impressione d’esser come avvolto in una bianca nuvola.

      Non mi feci caso di ciò che egli potesse pensare di me dopo quell’incontro. Seguitai a vederlo per le scale, e sentendomi dire come prima – Buon giorno – o – Buona sera –, rimasi con l’idea ch’egli fosse molto garbato.

      Vi assicuro invece ch’egli, nello stesso momento che fuori garbatamente mi diceva per le scale – Buon giorno – o – Buona sera –, dentro di sé mi faceva vivere come un perfetto imbecille perché là nella corte tolleravo quell’invasione di comari e quel puzzo ardente di lavatojo e le zanzare.

      Chiaro che non avrei più pensato: «Oh Dio com’è garbato il mio vicino di casa», se avessi potuto vedermi dentro di lui che, viceversa, mi vedeva com’io non avrei potuto vedermi mai, voglio dire da fuori, per me, ma dentro la visione che anche lui aveva poi per suo conto delle cose e degli uomini, e nella quale mi faceva vivere a suo modo: da perfetto imbecille. Non lo sapevo e seguitavo a pensare: «Oh Dio com’è garbato il mio vicino di casa».

      III. Con permesso

      Picchio all’uscio della vostra stanza.

      State, state pure sdrajato comodamente su la vostra greppina. Io seggo qua. Dite di no?

      – Perché?

      Ah, è la poltrona su cui, tant’anni or sono, morì la vostra povera mamma. Scusate, non avrei dato un soldo per essa, mentre voi non la vendereste per tutto l’oro del mondo; lo credo bene. Chi la vede, intanto, nella vostra stanza così ben mobigliata, certo, non sapendo, si domanda con maraviglia come la possiate tenere qua, vecchia scolorita e strappata com’è.

      Queste sono le vostre seggiole. E questo è un tavolino, che più tavolino di così non potrebbe essere. Quella è una finestra che dà sul giardino. E là fuori, quei pini, quei cipressi.

      Lo so. Ore deliziose passate in questa stanza che vi par tanto bella, con quei cipressi che si vedono là. Ma per essa intanto vi siete guastato con l’amico che prima veniva a visitarvi quasi ogni giorno e ora non solo non viene più ma va dicendo a tutti che siete pazzo, proprio pazzo ad abitare in una casa come questa.

      – Con tutti quei cipressi lì davanti in fila, – va dicendo. – Signori miei, più di venti cipressi, che pare un camposanto.

      Non se ne sa dar pace.
Voi socchiudete gli occhi; vi stringete nelle spalle; sospirate: – Gusti!

      Perché vi pare che sia propriamente questione di gusti, o d’opinioni, o d’abitudine; e non dubitate minimamente della realtà delle care cose, quale con piacere ora la vedete e la toccate.

      Andate via da codesta casa; ripassate fra tre o quattr’anni a rivederla con un altro animo da questo d’oggi; vedrete che ne sarà più di codesta cara realtà.

      – Uh guarda, questa la stanza? questo il giardino?

      E speriamo per amor di Dio, che non vi sia morto qualche altro parente prossimo, perché vediate anche voi come un camposanto tutti quei cari cipressi là.

      Ora dite che questo si sa, che l’animo muta e che ciascuno può

      sbagliare.
Già storia vecchia, difatti.

      Ma io non ho la pretesa di dirvi niente di nuovo. Solo vi domando:

      – E perché allora, santo Dio, fate come se non si sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d’oggi, e vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro?

      IV. Scusate ancora

      Lasciatemi dire un’altra cosa, e poi basta.

      Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n’ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?

      Ecco che torniamo daccapo!

      Io posso credere a tutto ciò che voi mi