La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке. Данте Алигьери

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Название La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке
Автор произведения Данте Алигьери
Жанр Поэзия
Серия Lettura classica
Издательство Поэзия
Год выпуска 1320
isbn 978-5-9925-1285-4



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sanza la qual chi sua vita consuma,

      cotal vestigio in terra di sé lascia,

      qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

      52 E però leva sù; vinci l’ambascia

      con l’animo che vince ogne battaglia,

      se col suo grave corpo non s’accascia.

      55 Più lunga scala convien che si saglia;

      non basta da costoro esser partito.

      Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».

      58 Leva’mi allor, mostrandomi fornito

      meglio di lena ch’i’ non mi sentia,

      e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».

      61 Su per lo scoglio prendemmo la via,

      ch’era ronchioso, stretto e malagevole,

      ed erto più assai che quel di pria.

      64 Parlando andava per non parer fievole;

      onde una voce uscì de l’altro fosso,

      a parole formar disconvenevole.

      67 Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso

      fossi de l’arco già che varca quivi;

      ma chi parlava ad ire parea mosso.

      70 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi

      non poteano ire al fondo per lo scuro;

      per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi

      73 da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;

      ché, com’ i’ odo quinci e non intendo,

      così giù veggio e neente affiguro».

      76 «Altra risposta», disse, «non ti rendo

      se non lo far; ché la dimanda onesta

      si de’ seguir con l’opera tacendo».

      79 Noi discendemmo il ponte da la testa

      dove s’aggiugne con l’ottava ripa,

      e poi mi fu la bolgia manifesta:

      82 e vidivi entro terribile stipa

      di serpenti, e di sì diversa mena

      che la memoria il sangue ancor mi scipa.

      85 Più non si vanti Libia con sua rena;

      ché se chelidri, iaculi e faree

      produce, e cencri con anfisibena,

      88 né tante pestilenzie né sì ree

      mostrò già mai con tutta l’Etiopia

      né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

      91 Tra questa cruda e tristissima copia

      correan genti nude e spaventate,

      sanza sperar pertugio o elitropia:

      94 con serpi le man dietro avean legate;

      quelle ficcavan per le ren la coda

      e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.

      97 Ed ecco a un ch’era da nostra proda,

      s’avventò un serpente che ’l trafisse

      là dove ’l collo a le spalle s’annoda.

      100 Né O sì tosto mai né I si scrisse,

      com’ el s’accese e arse, e cener tutto

      convenne che cascando divenisse;

      103 e poi che fu a terra sì distrutto,

      la polver si raccolse per sé stessa

      e ’n quel medesmo ritornò di butto.

      106 Così per li gran savi si confessa

      che la fenice more e poi rinasce,

      quando al cinquecentesimo anno appressa;

      109 erba né biado in sua vita non pasce,

      ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,

      e nardo e mirra son l’ultime fasce.

      112 E qual è quel che cade, e non sa como,

      per forza di demon ch’a terra il tira,

      o d’altra oppilazion che lega l’omo,

      115 quando si leva, che ’ntorno si mira

      tutto smarrito de la grande angoscia

      ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:

      118 tal era ’l peccator levato poscia.

      Oh potenza di Dio, quant’ è severa,

      che cotai colpi per vendetta croscia!

      121 Lo duca il domandò poi chi ello era;

      per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,

      poco tempo è, in questa gola fiera.

      124 Vita bestial mi piacque e non umana,

      sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci

      bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

      127 E io al duca: «Dilli che non mucci,

      e domanda che colpa qua giù ’l pinse;

      ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci».

      130 E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,

      ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,

      e di trista vergogna si dipinse;

      133 poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto

      ne la miseria dove tu mi vedi,

      che quando fui de l’altra vita tolto.

      136 Io non posso negar quel che tu chiedi;

      in giù son messo tanto perch’ io fui

      ladro a la sagrestia d’i belli arredi,

      139 e falsamente già fu apposto altrui.

      Ma perché di tal vista tu non godi,

      se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

      142 apri li orecchi al mio annunzio, e odi.

      Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;

      poi Fiorenza rinova gente e modi.

      145 Tragge Marte vapor di Val di Magra

      ch’è di torbidi nuvoli involuto;

      e con tempesta impetuosa e agra

      148 sovra Campo Picen fia combattuto;

      ond’ ei repente spezzerà la nebbia,

      sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

      151 E detto l’ho perché doler ti debbia!».

      Canto XXV

      Al fine de le sue parole il ladro

      le mani alzò con amendue le fiche,

      gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».

      4 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

      perch’ una li s’avvolse allora al collo,

      come dicesse ’Non vo’ che più diche’;

      7 e un’altra a le braccia, e rilegollo,

      ribadendo sé stessa sì dinanzi,

      che non potea con esse dare un crollo.

      10 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

      d’incenerarti