L'alcòva d'acciaio: Romanzo vissuto. F. T. Marinetti

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Название L'alcòva d'acciaio: Romanzo vissuto
Автор произведения F. T. Marinetti
Жанр Языкознание
Серия
Издательство Языкознание
Год выпуска 0
isbn 4064066072087



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colossali o palchi automobili per assistere ai cortei. Smisuratamente sproporzionatamente. I volantisti, pipino in bocca, faccia rossa polverosissima sembrano arrampicarsi come topi sui volanti.

      Questo secondo autocarro è ancor più grande. L’ultimo gareggia con le case. E’ forse una casa di Folkestone col suo giardinetto a guisa di strascico. Portano tutto con loro gli Inglesi. Ogni battaglione trascina una città di case dinamiche riboccanti di spettatori.

      Noi italiani combattiamo quasi nudi, ma ognuno ha purtroppo nel cuore un pensile giardino di donne-fiori i cui capelli pesantissimi ci incurvano in avanti sui golfi lunari del pericolo.

      L’indomani sera in treno per Verona leggo il trionfale comunicato di Diaz: «Dal Montello al mare, il nemico sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave».

      Alla stazione di Verona quasi buia mugola asserragliato e ribollente uno dei reparti d’assalto che va a riposo. Odore acre e mordente di belve vittoriose. Ballano nelle corse e nei gesticolamenti i fiocchi dei fez neri tra il vociare turbinoso, le gomitate e gli spintoni. Gli arditi hanno occupato il caffè della stazione. Si intravede un rimescolio di braccia nude stantuffare e rubinettare fiaschi di vino e bicchieri di birra, fra una fantasmagorica agitazione di luci azzurre e di ombre caricaturali. Ogni discussione sembra una rissa. Tutti si pigiano. Fame e sete azzannante e arraffante nel buio. Grandinare di bottiglie, bicchieri. Bestemmie degli ufficiali presi nei vortici della folla grigia-nera che non cede, resiste alle lente sbuffanti locomotive in manovra coi meccanici che si sporgono gridando.

      Mi sento chiamare. E’ il colonnello Trivulzio alto montanaro dal viso sessantenne alcoolizzato ma solidissimo, occhi giocondi vivacissimi, pipa in bocca. Ha lasciato il suo reggimento di fanteria per il comando di un reparto d’assalto. Fra le gomitate, gli urli dei suoi fez neri, mi racconta:

      —A Meolo, c’era da ridere. Una battaglia di clown e buffi napoletani. Vero bordello pieno di risse di avvinazzati. Ma quanto sangue e quanti morti! Però tutto era allegro. Non ho mai visto tanta confusione. Pensa, una nostra mitragliatrice tirava su una mitragliatrice austriaca che tirava su una nostra mitragliatrice! Una nel culo dell’altra. Tutte e 3 sulla stessa riga. Non si capiva dove era la linea. La linea oscillava continuamente. Alberi spaccati, reticolati che non prevedevamo, tutti i fili telefonici rotti. Ad un tratto, io mi avanzo con una mitragliatrice in una boscaglia e sbocco in un prato. Ma, ta-ta-ta-ta-ta... due, tre mitragliatrici austriache! Ai! ai! indietro, indietro! sono troppi, siamo pochi!

      E il colonnello Trivulzio descrive con gesti comici questa subita ritirata buffissima di gente scottata.

      —Ci rannicchiamo dietro gli alberi, 50 metri indietro. Tre secondi. Altri fez neri ci arrivano alle spalle come scolari in baldoria. Subito tutti in piedi ci slanciamo nel prato. Che casino! Che casino! Ma vi era una sicurezza straordinaria! Avevamo la vittoria nelle ossa. Avanti, indietro, si perdeva, e riguadagnava. Si perdeva con strafottenza di ricconi alla tavola del giuoco. «Dobbiamo far saltare quei tre cannoni?» mi domanda un caporale. Tutti rispondono: «No, no, no, per carità! Glieli prenderemo, non facciamo saltare nulla. I cannoni sono nostri e torneremo fra mezz’ora a riprenderli.» Eravamo tutti tranquilli come Battisti! Trenta pariglie di cavalli nostri furono prese dagli austriaci e riprese da noi mezz’ora dopo.

      Attraverso la calca con Zazà nelle braccia e fuori per Verona buia.

      Qualche bettola, a ciglia semichiuse. La sbornia già spinge fuori i gruppi-viluppi, le coppie-canore e gli arditi pugni e pugnali pronti fieri, irritatissimi di non veder davanti a loro la città inginocchiata con tappeti di donne morbide sul selciato, lampade e giardiniere di donne ai balconi. Sotto un portone nero, una zuffa fra carabinieri e arditi. Intervengo poichè un enorme carabiniere ha avvinghiato e porta sotto il braccio poderoso un frenetico magro ardito che batte coi piedi l’aria con ritmo di telegrafia Morse.

      —Via, non si trattano così dei soldati vittoriosi.

      —Ma, signor tenente, mi ha sferrato un pugno nel naso. Guardi come sanguina.

      —Lo lasci andare, è ubriaco. Bisogna concedere una sbornia agli eroi.

      —Se lei me lo comanda, signor tenente, lo lascio andare.

      Ecco liberata la belva gloriosa nella città buia. Avrò delle noie, ma non importa.

      Giro tutta la notte cogli arditi aizzando e moltiplicando i canti, ebbro non di vino ma di quell’alcool trasfigurante che tutti i filosofi sognano di sciogliere e distruggere nei lambicchi meticolosi e freddi e che si chiama Patriottismo. In questo senso non diverrò mai un antialcoolico.

      All’alba nello scompartimento di seconda classe che mi porta a Modena trovo finalmente il Premio che mi offre la Patria.

      Un’italiana veramente bella. Bruna, delicata, morbida e flessuosa. Trentenne, con occhi capelli e denti eccezionali.—Ma adagio! Ve la descriverò a poco a poco. Freno tutti i miei slanci compreso quello del mio lirismo descrittivo. La contemplo sommerso nell’ammirazione. Ghiandusso la guarda estatico. Zazà le si accuccia vicino, quasi sulle gambe. Io attacco discorso. Pronto, incalzante, intuitivo. La sento entusiasta della vittoria. Parlo della battaglia. La bella signora ascolta, vive tutti i gesti. Si chiama Rosina Millari di Oderzo. Ricca profuga un po’ sperduta, poichè non ama i parenti che la ospitano. Deve passare la giornata a Modena senza scopo per raggiungere la sera stessa una villa fuori di città. Invito la bella a colazione. Esita. Ma le forze mi sono favorevoli. Non si può veramente rifiutare nulla a un soldato vittorioso. Alla stazione di Modena non si può mangiare. L’affollamento dei soldati ci costringe a uscire al più presto coi bagagli suoi e miei, Ghiandusso-Zazà, tutta una famiglia improvvisata e poco dopo installata all’Albergo d’Italia.

      Ho l’anima di un soldato italiano. Sapete cosa significa avere 40 anni, del genio, molto fascino, una potente irradiazione di idee personali nuovissime e sane, regalate al mondo, dei poemi potenti creati, altri da scrivere, e nondimeno volontariamente e con entusiasmo giocare il tutto con disinvoltura per la propria terra e la propria razza in pericolo?

      Mi direte che un tenente di più al fronte è poca cosa. Ma questo tenente ha un nome luminoso, una parola eloquente, diventa perciò un esempio, un faro, un richiamo, una bandiera vivente di coraggio e fede per tutti coloro che credono in lui. Ecco ciò che sono. Un accumulatore di energia patriottica, utilissimo e assolutamente disinteressato. Militarizzare così il più ribelle dei temperamenti, disciplinando e strangolando il proprio orgoglio, sempre sull’attenti davanti a dei superiori che non lo sono. Ecco degli eroismi profondi e dolorosissimi che meritano, cari passatisti e care passatiste, dei premi da afferrare con mani rudi e pochi riguardi!

      Nella camera dell’Albergo d’Italia io entrai come si entra da un pasticcere quando si è stati privati di zucchero per molto tempo. Parlai d’amore con lirismo variopinto e modulatissimo offrendo tutti i trampolini vellutati alla dedizione della bella donna, ma in realtà io la conquistavo si può dire d’autorità.

      Non era una corvée che imponevo ai nervi della mia amica, li mandavo anzi in licenza sulle spiagge d’un gran mare di voluttà perchè vi guizzasse il suo spirito al quale io superiore cortese insegnavo a nuotare.

      La stanza era accesa dai riflessi delle mille bandiere che infuocavano le facciate delle case. Mobili giardini pensili. Rosso che sembra veramente ringiovanito. Il verde vile di Caporetto è diventato un verde Piave, un verde Mare Adriatico, diventerà un verde Isonzo. Il cielo incandescente sembra roteare come un viluppo gesticolante di bersaglieri scamiciati, feroci, urlanti, la bocca piena d’Italianità selvaggia e d’orgoglio, amore - vendetta - rapina - eroismo - maffia.

      Mi voltai per seguire la bella mia affaccendata nell’aprire i suoi bagagli. Un morso delicato nella nuca. Poi la svestii. Si lasciò fare languidamente, con tutte le moine che distinguono le amanti venete e il loro chiacchierio di uccellino che maledice la gabbia, implora la libertà e non conosce altro cielo che quello che brilla nell’acqua dello scodellino. La stordii di baci e di carezze infinite. La presi e ripresi con foga, con slancio, delirando. Poi mi fermai. Buttai sul divano l’anima che mi aveva servito fino allora e ne tirai fuori un’altra dalla profondità dei miei nervi.

      —Bisogna,