La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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Название La rivicità di Yanez
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
Год выпуска 0
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vedendosi perduto, abbia dato fuoco a Gauhati?

      – Lo credo, signor Sandokan.

      – Ma sappiamo dove trovarlo?

      – Nella città sotterranea.

      – Sarà ben sicuro laggiú?

      – Poche carabine bastano a difenderne l’entrata.

      – Allora sono tranquillo. Ancora dei segnali?

      Si alzò, e volgendosi verso gli uomini che montavano gli altri quattro elefanti, gridò con voce tonante:

      – Pronte le mitragliatrici!… C’è un nuovo attacco.

      «I cavalieri si stringano presso gli animali.»

      In quel momento alcuni colpi di fucile rimbombarono in mezzo alle mangifere. Facevano gran fracasso e nessun danno, essendo forse le carabine maneggiate da gente piú abituata ad usare il tarwar ed il bastone anziché le armi da fuoco.

      – Cornac! – gridò Sandokan. – Lanciate gli elefanti! Ormai sono abituati a questa musica!

      I cinque giganteschi animali, scortati dai cavalieri, si misero in moto a mezza corsa, barrendo spaventosamente. Non tenevano però la proboscide alzata per paura di ricevere qualche palla.

      Le mitragliatrici erano pronte. Bastava solo che gli assalitori si mostrassero per scatenarle, ma gli sciacalli di Sindhia, che avevano già provato il fuoco di quei terribili ordigni di guerra, si guardavano bene dal mostrarsi.

      I cavalieri però, quando vedevano qualcuno attraversare i cespugli a gran corsa, o per unirsi ai compagni, o per scegliersi una migliore posizione, di quando in quando facevano tuonare le loro grosse carabine di mare cariche fino a mezza canna di piccoli chiodi di rame. Quei colpi non sempre uccidevano, ma sbarazzavano il terreno dagli assalitori, i quali non sapevano resistere ai morsi crudeli di quel nuovo genere di mitraglia, usato solamente dai pirati malesi.

      Per un buon chilometro i cinque elefanti procedettero sempre a mezza corsa e sbucarono finalmente nella pianura che si stendeva al sud della capitale, priva di boschi e di jungle, perché quei terreni erano stati coltivati a risaie.

      Kammamuri mandò un altissimo grido:

      – La capitale è scomparsa!… Non vedo altro che la vecchia moschea che sorge presso l’entrata della città sotterranea.

      – Infatti non si vedono che dei bastioni semi-sventrati – rispose Sandokan. – Dev’essere stato un bell’incendio, poiché dei templi, dei palazzi e delle case ve n’erano in gran numero in Gauhati. Che si sia arrostito, per caso, anche Yanez? Ah! Sindhia me la pagherebbe ben cara la morte del mio fratellino bianco.

      La sua fronte si era corrugata tempestosamente, ed i suoi occhi nerissimi avevano mandato dei baleni terribili. La Tigre della Malesia non era ancora invecchiata.

      – Mi hai udito, Kammamuri? – chiese dopo un breve silenzio, rotto solo dallo sbuffare degli elefanti, i quali pareva che avessero nei polmoni dei mantici giganteschi.

      – Se il Maharajah ha avuto il tempo di rifugiarsi nelle grandi cloache, e l’avrà certamente avuto, noi lo troveremo ancora vivo.

      Sandokan respirò a lungo come gli avessero tolto dal petto un masso enorme che lo comprimesse, poi riprese:

      – Tu credi dunque che sia salvo?

      – Sí, signor Sandokan.

      – E la rhani? Ed il piccolo Soarez che tanto desidero di vedere?

      – O saranno con lui, o li avrà avviati prima verso le montagne. Sapete quanto Yanez sia prudente.

      – Sí, molto piú di me, e se non ci fosse stato lui a frenarmi, chi sa se sarei ancora vivo. Orsú, tutto pare che vada bene. Sole quattro miglia ci separano da quella moschea, distanza che i nostri elefanti ed i nostri cavalli supereranno in un batter d’occhio.

      – Se ci lasceranno tranquilli, signor Sandokan.

      – Ci diano pure battaglia quegli sciacalli; anche se sono molti, moltissimi, noi siamo pronti ad accettarla.

      – Vi è però un pericolo.

      – E quale?

      – Che poi ci assedino.

      – Dentro la città sotterranea?

      – Sí, signor Sandokan.

      – Manca l’acqua là dentro?

      – Ve n’è perfino troppa.

      – Ed allora tutto andrà bene: cinque elefanti da mangiare e quasi cento cavalli da scuoiare. Ne avremo per resistere a lungo.

      – E la legna?

      – I miei uomini sono abituati a mangiare la carne anche cruda; e poi, se ne avremo bisogno, tenteremo delle uscite furiose e ci provvederemo. Orsú, basta, ora è il momento di riprendere un’altra conversazione. Li vedi correre e nascondersi nei fossati delle risaie?

      – Sí, signor Sandokan, e quei birbanti son dieci volte piú numerosi di noi, e quello che è piú grave ancora, vedo non pochi rajaputi.

      – Ah, quei bravi rajaputi che si vendono cosí facilmente – disse Sandokan, stringendo i denti. – Sarà su di loro che faremo tuonare le nostre mitragliatrici. Gli altri ben poco contano.

      Per la seconda volta si alzò gridando ai cornac:

      – A gran corsa!… Diritti verso quella moschea che vedete laggiú!…

      Cinque o seicento uomini, fra i quali si trovavano non pochi rajaputi, erano balzati sugli argini delle risaie, sparando all’impazzata. Le cinque mitragliatrici, tre volte a destra e due a sinistra subito crepitarono scagliando proiettili in tutte le direzioni.

      Nel medesimo tempo i cavalieri avevano aperto il fuoco colle loro grosse carabine.

      Quell’uragano di piombo e di rame non parve però che spaventasse troppo gli assalitori, quantunque molti cadessero ad ogni istante dentro i canali delle risaie morti o feriti.

      Gli sciacalli di Sindhia correvano all’assalto con un coraggio disperato, decisi, a quanto pareva, ad impedire a quella colonna, che veniva dal sud, l’entrata nella capitale distrutta o nella città sotterranea.

      Si scagliavano con impeto selvaggio, in grossi gruppi, correndo all’impazzata ed urlando spaventosamente. Assalivano a destra ed a sinistra procedendo animosamente e non cessando di sparare, ma quasi sempre a casaccio.

      La colonna infernale peraltro non si arrestava. Procedeva rapida, sempre mitragliando, mentre i cavalieri eseguivano, di quando in quando, delle cariche furiose coi pesanti kampilangs in pugno, producendo sugli sciacalli di Sindhia delle ferite spaventose e forse inguaribili.

      Dinanzi a quegli attacchi furibondi gli assalitori continuavano a scompigliarsi ed a fuggire attraverso alle risaie, ma non tardavano a raggrupparsi intorno ai rajaputi, i soli che osassero resistere, ed a far uso delle loro carabine.

      Dalla parte dei malesi, di quando in quando cadeva qualche uomo che non veniva abbandonato dai compagni sul campo di battaglia, colla speranza di poterlo ancora salvare.

      Ma le cinque mitragliatrici, maneggiate da uomini abili, compivano delle vere stragi, ed erano soprattutto i rajaputi che pagavano, perché Sandokan non faceva fuoco che su di loro, ben sapendo che erano le uniche truppe solide che aveva l’ex rajah.

      Quegli arditi mercenari dall’aspetto brigantesco, cadevano a gruppi sugli argini, dentro i canali delle risaie; eppure tentavano di raccogliere, con altissime grida, intorno a loro, i paria, i fakiri, i bramini, tutta gente non abituata certamente alla guerra.

      – Tengono duro, ma noi la spunteremo – disse Sandokan a Kammamuri, maneggiando la mitragliatrice. – Se non vi fossero i rajaputi, la giornata sarebbe già vinta; però Sindhia s’inganna se crede di arrestarci prima che noi giungiamo nella città sotterranea.

      Le scariche si succedevano alle scariche con frequenza spaventosa, ed i proiettili sibilavano dentro le risaie. I cavalieri cosí malesi come dayaki, erano tornati a stringersi intorno agli elefanti e si servivano delle