Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

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Название Jolanda, la figlia del Corsaro Nero
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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riconoscendo in lui uno degli otto filibustieri incaricati di scortare il piantatore.

      «Dove sono i tuoi compagni?» chiese Morgan, dopo d’averlo lasciato vuotare una tazza di rum, tanto quel povero diavolo appariva sfinito dalla fatica.

      «Impiccati, capitano» rispose il filibustiere. «Essi penzolano da sette forche erette sulla Plaza Maior di Maracaybo, nell’istesso luogo ove diciott’anni or sono fu preso il Corsaro Rosso, il fratello del signore di Ventimiglia».

      Un lampo terribile era guizzato negli occhi dell’Almirante della squadra.

      «Impiccati! …» gridò con voce terribile.

      «Per ordine del governatore».

      «Malgrado la bandiera bianca?»

      «Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo averci fatti sbarcare e averci accolti come parlamentari».

      «E non vi siete difesi?»

      «Ci avevano prima invitati a deporre le armi, promettendo di rispettarci come messi di pace».

      «Miserabili!… E perché ti hanno risparmiato?»

      «Perché vi recassi la risposta del governatore».

      «L’hai?»

      «Eccola» disse il filibustiere levandosi dalla fascia di lana che gli cingeva i fianchi, un biglietto.

      Morgan se ne impadronì vivamente, gettandovi sopra gli occhi.

      Non conteneva che due righe:

      «Aspetto a Maracaybo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.

      Il governatore della piazza».

      Morgan stracciò con ira il biglietto, poi rivolgendosi al marinaio, chiese:

      «Ti ha detto nulla della figlia del cavaliere di Ventimiglia?»

      «Sì, che andate a prenderla, se ne avete il coraggio».

      «E la prenderemo» rispose Morgan.

      Poi, con voce tuonante, in modo da poter essere udito anche dai marinai delle altre navi, gridò:

      «Si salpino le àncore e si sciolgano le vele. Prima di domani sera Maracaybo sarà nostra».

      Un urlo immenso, alzatosi su tutte le navi, rispose:

      «A Maracaybo!… A Maracaybo!…»

      Mezz’ora dopo le otto navi lasciavano la baia, veleggiando verso il golfo. La Folgore – che era la nave di Morgan, così battezzata a ricordo della valorosa nave del Corsaro Nero – apriva la via.

      Era la più grossa di tutte, una fregata a tre alberi, armata di trentasei cannoni di grosso calibro, fra cui alcuni pezzi da caccia e montata da ottanta uomini che nulla temevano.

      Le altre, che erano quasi tutte caravelle predate agli spagnoli, ma armate di numerosi pezzi di cannone, di petriere e di grosse spingarde, la seguivano in una doppia colonna, tenendosi ad una distanza di cinque o seicento metri l’una dall’altra, onde aver campo sufficiente per manovrare senza correre il pericolo d’investirsi.

      Tutte avevano i fanali spenti. Tuttavia, quantunque la luna mancasse, la notte era abbastanza chiara, essendo l’aria delle regioni tropicali ed equatoriali d’una purezza straordinaria.

      Morgan, che si trovava sul ponte di comando, scrutava attentamente l’orizzonte, essendogli stato riferito giorni innanzi che tre grosse navi spagnole avevano lasciati i porti di Cuba per dargli la caccia e assalirlo prima che tentasse qualche altra impresa contro le città del continente.

      Carmaux, che era il suo fido, si trovava con lui e scambiavano qualche parola.

      «Mi viene però un dubbio, capitano» disse Carmaux.

      «E quale?»

      «Che il governatore, conoscendo lo scopo della nostra spedizione e sapendoci vicini, approfitti del nostro ritardo per far trasferire altrove la figlia del signor di Ventimiglia».

      Una ruga profonda si era disegnata sull’ampia fronte di Morgan.

      «Se non ritrovassi quella fanciulla» disse con voce minacciosa, «non darei una piastra di tutte le pelli degli spagnoli di Maracaybo. Tu sai che so essere gentiluomo come il signor di Ventimiglia; ma anche tremendo ed implacabile come Pietro l’Olonese, che fu il più feroce e spietato filibustiere della Tortue».

      «Quel cane di governatore, che mi fu dipinto come un uomo avidissimo e che fu un tempo amico intimo del duca Wan Guld, il suocero del signor di Ventimiglia, sarebbe capace di farla scomparire».

      «Sventura a lui. Come il Corsaro Nero fu implacabile contro il duca, io non lo sarò meno col governatore di Maracaybo e lo perseguiterei fino alla morte. Ah! Se la figlia del nostro vecchio condottiero ci avesse avvertiti del suo arrivo in America, gli spagnoli non l’avrebbero presa. Tutti i più celebri filibustieri della Tortue si sarebbero tenuti onorati di scortarla e di proteggerla. È strano che non si sia ricordata che suo padre contava fra noi un numero così immenso di amici e di camerati devoti e che ignorasse che alla Tortue egli possiede ancora una villa e delle piantagioni che io solo amministro da diciassette anni».

      «Forse era sua intenzione di giungere fra noi improvvisamente e, senza l’incontro colla fregata spagnola che ha catturata la nave olandese, sarebbe già la regina della Tortue».

      «Ah!… Guarda Carmaux!…»

      «Che cosa, capitano?»

      «Dei fanali laggiù che navigano verso il nord».

      «Che siano i tre vascelli che sono incaricati di darci la caccia? Ho udito a raccontare che sono navi grosse, d’alto bordo, equipaggiate da biscaglini e capaci d’affrontare una squadra ben più numerosa della nostra. In guardia con quei lupi, capitano».

      «Quei fanali vanno verso il settentrione, quindi non li incontreremo sulla nostra rotta» rispose Morgan.

      «Purché non facciano rotta falsa, per poi piombarci alle spalle quando saremo impegnati coi cannoni del forte della Barra a Maracaybo» disse Carmaux.

      «Giungeranno troppo tardi. Va ad avvertire Pierre le Picard di stringere contro la costa e fa chiamare in coperta tutti gli uomini».

      Mentre venivano eseguiti i suoi ordini, Morgan seguiva attentamente cogli sguardi i sei punti luminosi che continuavano ad allontanarsi dal golfo di Maracaybo, anziché accorrere in difesa della città. Quando li vide scomparire sul fosco orizzonte, respirò liberamente e la ruga che si delineava sulla fronte, scomparve.

      «Se torneranno, giungeranno a cose finite» mormorò. «Quando sorgerà l’alba, noi saremo sotto il forte della Barra e vedremo se gli spagnoli resisteranno a lungo».

      Le otto navi che formavano la squadra si erano ripiegate verso la costa, stringendo il vento il più possibile. Già l’isola di Zapara era in vista sulle sue spiagge non brillava nessun fuoco che annunciasse qualche sorveglianza da parte degli spagnoli.

      Mancava qualche ora all’alba, quando la squadra, ancora da nessuno avvistata, entrava a gonfie vele nella laguna di Maracaybo, passando fra la penisoletta di Sinamaica e la punta occidentale di Tablayo.

      Tutti gli uomini erano già ai loro posti di combattimento, dietro le brande accumulate sui bastingaggi o nelle batterie dietro ai pezzi, ed i comandanti sui ponti col portavoce in mano.

      «Carmaux» disse Morgan che fissava il forte della Barra, già in vista. «Dà ordine ai nostri artiglieri di non far fuoco, anche se gli spagnoli ci bombardano.

      Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando la squadra comparve improvvisamente nelle acque battute dal forte, disposta su una sola linea, colla Folgore nel centro.

      L’allarme era stato già dato e l’intera guarnigione era uscita frettolosa dalle casematte per accorrere sugli spalti del castello. Quei soldati dovevano però essere ben sorpresi di vedersi piombare addosso, all’improvviso, quella squadra che non era stata fino allora segnalata nemmeno dalle caravelle incaricate della vigilanza della bocca della laguna.

      Probabilmente il governatore, non credendo alla minaccia di Morgan, non si era preso nemmeno