Название | Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni |
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Автор произведения | Massimo d' Azeglio |
Жанр | Языкознание |
Серия | |
Издательство | Языкознание |
Год выпуска | 0 |
isbn | 4064066070090 |
Non creda però il lettore che i soldati d’allora fossero altrettanti cappuccini, poichè nemmeno i compagni di Fanfulla non pregavano se non pel timore del manico d’un gran partigianone ch’egli aveva in ispalla col quale avea già fatto l’atto di voler spolverare le spalle d’uno di loro che s’era immaginato di far l’ésprit fort.
Persuasi dunque da quest’argomento che, se le regole della versificazione l’avessero permesso, si poteva benissimo includere cogli altri in quel bel verso de’ trattati di logica
Barbara, celarent, dario, ferio, baralipton
camminavano già da un’ora con quel diletto che conosce chi ha dovuto talvolta portar il nome in una brutta nottata d’inverno a sette o otto corpi di guardia.
Alla fine voltando la cantonata d’Or S. Michele per andar in porta Rossa, videro, al lume di un torchio che avean con loro, come un viluppo di panni in terra vicino al muro; perchè accostatisi e considerato attentamente s’accorsero che era una donna accovacciata: per difendersi dall’acqua s’era tirati i panni in capo, e a veder com’era tutta inzuppata e lorda di fango si capiva che doveva essere costì da un pezzo. Se fosse stata a giacere si sarebbe potuto sospettarla vittima di qualche violenza, ma era seduta.
—Che diavolo.... che domin sarà—disse Fanfulla fermatosi co’ suoi uomini a considerarla.
—Qualche pazza fuggita—disse uno.
—Pare una figura dell’inferno di Dante—disse un altro che voleva far il letterato.
—Fosse la notte di S. Giovanni, soggiunse un terzo, si potrebbe credere fosse... avesse a essere...—
—Sì proprio! una strega! rispose sorridendo con disprezzo l’ésprit fort della compagnia, non vedi che non ha il piede di capra!...... ignorante che tu se’!—
—Vediamo insomma—disse Fanfulla, e fattosele dappresso le diceva:
—Quella giovane!... Ohe, quella giovane, quella donna! dico a voi! Ohe.—
Ma l’altra non si movea. Ripetè ancora due o tre volte la sua chiamata, poi, sollevando i panni che la nascondevano, la prese pel braccio, la scosse, ed essa alzando allora lentamente il capo mostrò un viso che si capiva dover essere stato bello; ma in quel momento appariva affilato e livido come quello d’un cadavere. Gli occhi spalancati, ma stravolti e spenti, s’affissavano sugli astanti senza mostrar di vedere. In grembo aveva un bambino di poco tempo tutto ravviluppato in una coperta di lana; dormiva riposato, con certe gote tonde tonde tutte latte e sangue, perchè la madre facendogli tetto colle braccia e col capo, era riuscita a difenderlo dall’acqua e dal freddo.
Tutto a un tratto la meschina, come svegliandosi e riscotendosi da quel torpore, si scosse, ed il primo moto fu stringersi al petto il bambino, ricoprendolo colle mani e co’ panni, mentre Fanfulla le diceva:
—Oh! che domin fate voi qui a quest’ora, a codesto modo? Animo, su, alzatevi.... che è stato? che v’è succeduto?.... diteci dove state di casa, vi ci meneremo....—
—Dove sto di casa? soggiunse la giovane dando in uno scoppio di pianto, io non ho più casa.... eccola, casa mia è questo fango.... questo è il mio tetto... la culla di questo povero figlio mio sventurato.—E così dicendo stampava sulla bocca al fanciullo certi baci disperati che lo destarono; e svegliarsi e cacciarsi a piangere fu tutt’uno.
—Bel gusto di svegliare e far piangere quel povero innocente, che non ci ha che far niente, disse Fanfulla, che alla fine aveva poi buon cuore, come l’hanno in genere tutti gli uomini valorosi, ed un po’ latini di mano, per un curioso capriccio della umana natura.
—Ma non avete parenti, marito, padre... madre almeno?.... male che vada, madre se non altro l’abbiamo tutti.—
E la donna piangeva sempre più forte senza dar altra risposta.
—Oh insomma, disse Fanfulla, qui ci vuol altro che piangere e disperarsi; è notte, piove, e fa freddo, e questo fanciullo non sarebbe mai vivo domattina, onde levatevi di qui; al coperto intenderemo il fatto.... andiamo.—
E con amorevoli parole, usando così pure un poco di forza, sollevò di terra la donna, e s’avviò con essa a lento passo non restando di reggerla e confortarla, e portandole alla fine anche il bambino, che faceva un bel vedere in collo a Fanfulla, finchè l’ebbe condotta al palazzo de’ Signori nelle camere terrene, occupate dalla guardia del portone, ove almeno non piovea, e v’era anche acceso un buon fuoco.
Colà appoco appoco, rasciutta e ristorata alquanto, cominciò la donna a parlare. Sul primo stava come in sospetto, vedendosi attorno molti soldati che la consideravano senza cerimonie, nè tralasciando pur anche ognuno di dir ciò che gli veniva bene sul fatto di essa: ma Fanfulla, accortosi che quell’investigazione e que’ discorsi l’offendevano, li fece ritrarre in una stanza vicina, parte con buone parole, parte mostrando di adirarsi, e di voler usare quel tal argomento, accennato di sopra, che i maestri di logica hanno scordato di mentovare.
Non sapeva perchè, ma sentiva premura per quella sconosciuta, e non è cosa che non avesse fatto per farle piacere: la donna anch’essa, rassicurata un poco e rincorata dal buon cuore che traspariva dai modi un po’ ruvidi, è vero, ma pure amorevoli del vecchio soldato, si lasciò persuadere ad aprirsi a lui, e raccontargli le sue vicende. Ma considerando che questo racconto riuscirebbe per avventura interrotto e mal connesso, quale si dovrebbe aspettare da una persona posta in tanta agitazione d’animo, e confusione di pensieri, crediamo bene di tralasciarlo: essendo però necessario che il lettore sappia chi era costei, e conosca i suoi casi, ci giova per questo riprender le cose indietro un po’ alla lontana, e riferir molti particolari appartenenti alla famiglia di Niccolò, ai quali non abbiam fin ora saputo trovar luogo nel nostro racconto.
CAPITOLO VIII.
In faccia alla porticciuola di fianco di S. Maria Maggiore si vede ora una casa dell’architettura insipida e senza carattere del secolo XVIII, che dopo essere stata la locanda dell’Aquila nera, vien detta in oggi la nuova York. In quest’area medesima, occupata prima dal Seminario, ed in parte, più anticamente, dalla casa de’ Cerretani, era, all’epoca di cui scriviamo, la casa di Niccolò, fabbricata dal tre al quattrocento, e simile ad alcune di quel tempo che ancora rimangono in Firenze. Dio voglia conservarla un pezzo, o liberarla da un padron di casa di que’ tali che, per aumentar le pigioni, d’una camera ne fanno quattro, apron finestre, danno il bianco alle facciate.... ma lasciamo questo discorso, che è un brutto combattere e parlar di gusto, di memorie, d’architettura, con chi risponde quattrini.
La casa ove abitava la famiglia de’ Lapi (divisa da’ Carnesecchi dalla via de’ Conti) era quadra, soda, massiccia, a tre piani, con un bugnato sino al primo di pietre scarpellate ed annerite dal tempo; le mura al disopra tutte piene di rabeschi a graffito, ed in cima affatto una loggia retta da colonnette sottili. Il tetto sporgeva innanzi di molte braccia, e le travi dell’incavallatura che lo reggevano, prolungandosi fuori del muro, mostravano a guisa di gran mensoloni ornati alla grossa di qualche intaglio. Le finestre del pian terreno, forse un po’ troppo a portata di chi era in istrada, eran munite da grosse ferriate, sott’esse una panca di sasso quant’era larga la facciata, ed in questa, all’altezza di dieci braccia, eran commesse tra le bugne spranghe di ferro lunghe