Название | La conquista di Roma |
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Автор произведения | Matilde Serao |
Жанр | Языкознание |
Серия | |
Издательство | Языкознание |
Год выпуска | 0 |
isbn | 4064066070885 |
Nel treno, invece, pareva dormissero tutti, in sonno profondo. Attraverso il rumore del treno, sempre più cullante, l'onorevole Sangiorgio credeva quasi di udire un lungo respirare calmo, gli pareva quasi di vedere un grande petto sollevarsi e abbassarsi lentamente, nel felice alternarsi meccanico della respirazione. Alla stazione di Cassino, dove il treno si ferma per cinque minuti, all'una dopo mezzanotte, non discese alcuno; e il garzone del caffè che dormiva sotto la lampada a petrolio, con le braccia sul marmo del tavolino e la testa sulle braccia, non si mosse. I guardafreni, avvolti nel cappotto nero, col cappuccio calato sugli occhi e una lanternetta in mano, andavano tentando i freni, che mandavano uno squillo metallico, di un'intonazione purissima, come cristallo. Anche il fischio della vaporiera, partendo, era dolcemente rauco, voce grossa e acuta, che si smorzava, per delicatezza. Riprendendo il cammino, il movimento del treno era come un dondolìo molle, senza stridori, senza urti, senza scatti, un andare rapido come sul velluto, con un rombo sordissimo che pareva il russare di un forte gigante addormentato, nella pienezza del suo riposo. Francesco Sangiorgio pensò a tutta quella gente che viaggiava con lui: gente addolorata per la partenza o allegra pel paese dove si recava; gente innamorata senza speranza, innamorata tragicamente, o felicemente innamorata; gente preoccupata dal lavoro, dagli affari, dalle angustie, dall'ozio; gente oppressa dall'età, dalle infermità, dalla gioventù, dalla felicità; gente che sapeva di camminare a un drammatico destino, o che ci si avviava, inconscia. Eppure, tutti costoro, dopo mezz'ora, a uno a uno, avevano ceduto lentamente al sonno, tutto, l'anima e il corpo, obliando. Il benefizio amoroso, profondo, risanatore del riposo era disceso su quegli ardori, e li aveva mitigati, si era allargato su quella tribolata parte dell'umanità, troppo felice o troppo infelice, placandola nel sonno. Nervi irritati, collere, disprezzi, desiderii, morbosità, vigliaccherie, mestizie incurabili, tutte le miserie e tutte le grandezze umane, viaggianti in quel treno notturno, posavano, nella grande dolcezza dell'addormentamento. Il treno si portava via, alla loro sorte, triste, buona, mediocre, quegli spiriti sognanti e quelle forme abbattute nella quiete: quegli esseri godevano la profonda voluttà dell'annichilimento senza dolore, lasciando a una forza, fuor di loro, il trasportarli lontano.
— Ma perchè non posso dormire anch'io? — pensava Francesco Sangiorgio.
E un momento, ritto, nel suo vagone deserto, sotto la vacillante luce della fiammella a olio, con la campagna nerissima che fuggiva dietro i cristalli, con la leggera brina che appannava quei cristalli, col freddo della notte che si faceva più frizzante, gli parve d'essere solo, irrimediabilmente, abbandonato, perduto, nella debolezza della solitudine. Si pentì di avere per orgoglio richiesto un compartimento riservato, desiderò la compagnia di un uomo, quella di una persona qualunque, un suo simile, il più umile. Si sentì smarrito e pauroso come un bimbo, in quella gabbia donde non poteva uscire, che la macchina portava via, quella macchina che egli era impotente a fermare nella sua corsa: era spaventato, come una miserabile creatura che veglia, solitaria, in una casa dove tutti dormano. Una soffocazione lo assalse alla gola, se no, avrebbe gridato per chiedere aiuto: uno sfinimento lo prese alle gambe, e lo abbattè, di nuovo, sul sedile.
Ma questo durò pochissimo: la coscienza del coraggio rinacque subito in lui, e l'abitudine di una vita deserta di soccorsi morali, tutta chiusa in se stessa, tutta appoggiata sulle proprie forze, vinse quel minuto di terrore. A un pensiero che per molto tempo era rimasto latente, e che ora si presentava nella sua forma concreta, con un nome di quattro lettere, egli balzò di scatto dal divano, e si diede a passeggiare, nervosamente, su e giù nella carrozza.
— È Roma, è Roma... — mormorava.
Sì, era Roma. Adesso quelle quattro lettere, rotonde, chiarissime, squillanti come le trombe di un esercito in marcia, si disegnavano nella sua fantasia, con un'ostinazione d'idea fissa. Il nome era breve e soavissimo, come uno di quei flessuosi e incantevoli nomi di donna che sono un segreto di seduzione; e gli si avvolgeva nella mente in attorcigliamenti bizzarri, in meandri di fascino. Non poteva, non sapeva formarsi l'idea che quelle quattro lettere, come scolpite nel granito, rappresentavano. Il senso che quello fosse un nome di una città, di un grande agglomeramento di case e di popolo, gli sfuggiva: Roma gli era ignota. Per mancanza di tempo, per non sciupare del denaro, ragione di tutte più forte, avvocatuccio ignoto, individuo insignificante, egli non era mai stato a Roma. E non avendola vista, non poteva rappresentarla che astrattamente, come una grande cosa fluttuante, come un grande pensiero, come una grande visione singolare, come un'apparizione femminile ma ideale, come un'immensa figura dai contorni indistinti. Così, tutto quello che egli si figurava di Roma era grandioso, ma indeciso, indefinito: paragoni strani, finzioni che diventano idee, un tumulto nella fantasia, un miscuglio d'immagini e di concetti che si sovrapponevano. Dentro quella maschera glaciale di meridionale pensieroso, ardeva il fuoco di una immaginativa abituata a contemplazioni egoistiche e solitarie: e Roma vi metteva il subbuglio.
Oh! egli la sentiva, Roma: la vedeva, come una colossale ombra umana, tendergli le immense braccia materne, per chiuderselo al seno, in un abbraccio potente, come quello che Anteo riceveva dalla terra, e ne usciva ringagliardito: gli pareva di udire, nella notte, la soavità irresistibile di una voce femminile che pronunziasse il suo nome, ogni tanto, dandogli un brivido di voluttà. La città lo aspettava, da un pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio della madre, profondo, che evoca il figliuolo.
Da tempo egli sentiva questa seduzione di amore, questo appello di amore, intorno a sè: si rodeva d'impazienza, fermo al suo posto, avvinghiato da mille difficoltà materiali e morali, non potendo sciogliersi, con un tormento inferiore che gli faceva pallido il viso e torbido l'occhio. Quante volte, da terrazzino coperto, ad arcate, della sua casa, nel suo paese di Basilicata, egli aveva guardato l'orizzonte chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell'arco di cielo che si piegava, grandioso, era Roma che lo aspettava! Come