Il Cielo Di Nadira. Mongiovì Giovanni

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Название Il Cielo Di Nadira
Автор произведения Mongiovì Giovanni
Жанр Исторические любовные романы
Серия
Издательство Исторические любовные романы
Год выпуска 0
isbn 9788893985512



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appena sarà possibile. Per quanto riguarda la guerra… beh, figliolo, prima devi preparare il tuo cuore… devi imparare ad odiare!»

      «Io so già odiare! Mettetemi qui davanti un infedele e vedrete come lo riduco a brandelli.»

      «Non basta, non sei abbastanza forte.»

      «Datemi la vostra ascia e abbatto quest’ulivo in tre colpi.»

      Roul rise ancor più forte e rispose:

      «Tu non sapresti neppure sollevarla la mia ascia! Verrai con me in battaglia, ma non adesso. L’esercito regolare di Costantinopoli è composto da uomini che abbiano compiuto almeno diciotto anni. Noi non siamo certo al loro scarso livello, ma lascia che ti spunti almeno qualche pelo prima di venire.»

      «Il prossimo anno?» chiese innocentemente Conrad.

      «Il prossimo anno… va bene.» accordò Roul per toglierselo davanti.

      «Vendicherò mio padre!»

      Roul questa volta non rispose, piuttosto mise una mano sulla spalla dell’altro e riprese a scendere.

      L’accampamento era un brulicare di gente; prima di allora a Conrad non era sembrato così grande. L’aria era quella della festa e tutto intorno i soldati ridevano e scherzavano, questa volta senza mostrare quella diffidenza che intercorreva tra stirpi diverse. Un tizio a lato della strada, presso le grandi tende, aveva una cassa piena di strani oggetti metallici con punte su più lati. Roul ne prese uno, lo mostrò a Conrad e gli spiegò:

      «Vedi questo arnese, ragazzo? È così che Abd-Allah intendeva sconfiggerci, disseminando il terreno con centinaia di questi cosi. Ma i nostri cavalli sono ferrati con piastre larghe e i pungoli non ci hanno fatto un bel niente. Comincia ad imparare qualcosa sulla guerra.»

      Carri carichi della roba del bottino continuavano ad arrivare scortati dai soldati regolari e confluivano presso il largo spiazzo antistante la tenda del comando, quella di Giorgio Maniace; ovviamente anche i carri e i buoi facevano parte del bottino. Su qualcuno di questi carri vi erano anche uomini e donne presi prigionieri nelle scorrerie: si trattava dei malcapitati civili mori che non erano riusciti a nascondersi. Molte di quelle donne avrebbero fatto parte dei festeggiamenti come iniziale atto di servitù, prima di essere mandate in Terraferma come bottino da recapitare alle famiglie dei nuovi padroni. Le donne avrebbero fatto parte delle corti nei palazzi nobiliari e gli uomini sarebbero diventati servi della gleba, oppure, sia uomini che donne, sarebbero finiti in mano ai mercanti di schiavi giudei, i quali li avrebbero sparsi nei mercati di tutto il Mediterraneo. Ai cristiani era infatti teoricamente proibito commerciare direttamente esseri umani ridotti in schiavitù, ma la verità era che il traffico dei prigionieri rendeva bene a tutti, cristiani e non.

      Una delegazione degli abitanti di Rametta arrivava con carichi di provviste da destinare alle truppe. Rametta, arroccata in posizione formidabile sulle Caronie, era caduta in mani saracene solo nel 965, l’ultima tra tutte le città di Sicilia, ed era considerata il baluardo della cristianità siciliana e dell’eroismo mostrato per la difesa della fede. Giorgio Maniace l’aveva ripresa poco dopo il suo passaggio oltre il Faro, ingaggiando una sanguinosa battaglia in cui i guerrieri normanni avevano pagato il maggior contributo di sangue. Adesso i suoi abitanti sostenevano la riconquista cristiana in ogni modo a loro possibile, inviando uomini e vettovaglie. Lo stesso facevano i cittadini di Rinacium53 - nome della città negli atti ufficiali - a poche miglia ad ovest da lì, essendo il centro abitato di una certa consistenza più vicino all’accampamento.

      Dopo poco tempo si presentò Tancred, il quale portava un otre di vino.

      «Alcuni ne hanno già prosciugati tre!» disse questi, porgendo al suo commilitone l’oggetto a cui si riferiva.

      «To’, fatti un sorso!» invitò Roul, passando il vino a Conrad.

      Il ragazzino afferrò l’otre e ne ingurgitò un boccone, quindi stranì in viso e lo mandò giù a fatica. Gli altri due risero di gusto vedendo la difficoltà del figlio di Rabel a comportarsi da adulto.

      «Mi sa che per le donne c'è ancora tempo!» esclamò Roul, sottolineando il fatto che se Conrad avesse ancora difficoltà col vino, figuriamoci con le donne.

      «Cosa ti aspetti? Ha solo nove anni.» fece notare Tancred.

      «Io a nove anni andai con la mia prima baldracca!» rispose Roul, pur se la cosa sembrava assurda.

      Quella fu l’ultima frase che Conrad ascoltò con lucidità. Al secondo sorso di vino cominciò a vedere annebbiato e a non discernere più le singole voci dall’enorme e nebuloso vociare di migliaia di bocce parlanti in decine di lingue differenti.

      «Pugno Duro, mi sa che il tuo figlioccio l’abbiamo perso...» commentò Geuffroi, un nobile normanno loro amico.

      «È il figlio di frate Rabel, non il mio… Il figlio di Pugno Duro saprebbe bere il fuoco di questo monte.» si vantò Roul, speculando su un erede mai avuto e indicando il Jebel.

      «Donne, dadi e vino… fuori dalla tenda della guardia variaga se la spassano alla grande!» s’intromise un altro, arrivando tutto eccitato e col fiatone.

      Si diressero al luogo interessato, sennonché, una volta giunti presso lo spiazzo della tenda del comando, dovettero desistere da ogni proposito. Conrad se ne stava ancora rimbambito e seguiva i vecchi amici di suo padre senza capire alcunché. Decine e decine di persone, soldati di ogni genere, religiosi e persino alcune donne non ancora del tutto ricomposte lì dove si erano lasciate scoprire, se ne stavano tutte attorno al centro dello spiazzo, intente ad assistere a qualcosa. Regnava il silenzio e l’apprensione era tipica di quando sta per succedere qualcosa di terribile. Pure gli uomini della guardia variaga, coloro che avrebbero dovuto spassarsela, se ne stavano attenti a fissare il centro della scena. Roul perciò si fece largo spostando gli individui davanti a lui; Tancred, Geuffroi e Conrad ne approfittarono per avanzare.

      Dalla tenda di Giorgio Maniace vennero fuori quattro uomini, quattro stratioti54 di Costantinopoli, riconoscibili dall’armatura e dall’aspetto mediterraneo. Tutt’attorno alla scena che stava per concretizzarsi, altri soldati romei55… calabresi, macedoni e pugliesi, si schierano a protezione, temendo la reazione di qualcuno tra la folla.

      A questo punto Tancred rivolse la parola ad un compagno d’armi lì vicino, il quale probabilmente aveva assistito alla scena sin dall’inizio.

      «Amico, che diamine succede qui?»

      E quello, a bassa voce e mettendo una mano sulla bocca:

      «Maniakes56 e Arduin… pare che sia nata una discussione tra loro.»

      «Per cosa?»

      «Parlavano in greco, non ho capito tutto… però…»

      «Però cosa?»

      «Pare che l’alterco sia scoppiato per un cavallo.»

      I carri col bottino erano stati in parte svuotati e degli uomini fidati smistavano la roba secondo la tipologia a cui essa apparteneva. Effettivamente un bellissimo purosangue arabo, nero come la pece e dal pelo lucidissimo, stazionava davanti ai carri. A questo punto i quattro stratioti fecero presto a tirare la bestia verso il luogo da cui erano usciti. Si fecero avanti anche alcuni longobardi57, ma le picche dei soldati a protezione li fecero desistere dall’intervenire.

      Venne allora fuori Giorgio Maniace, con le mani ai fianchi e tutto furioso. Questi col suo occhio buono cominciò a fissare in cagnesco ogni presente. Poi urlò nella sua lingua, ma tutti compresero:

      «Qualcun altro ha intenzione di sfidare lo Strategos58

      Questa domanda introduceva ciò che stava per concretizzarsi.

      I