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lo spirito della contraddizione; e quando se le presentavano circostanze disgustose, cercava meno la verità che argomenti da combattere. Una lunga abitudine aveva tanto confermato in lei questa disposizione naturale, che non se ne accorgeva più. Le ragioni di Emilia non fecero che risvegliare il suo orgoglio, anzichè convincerla; e non pensava se non a sottrarsi alla necessità di obbedire sul punto in questione. Se le fosse riuscito di fuggire dal castello, contava già separarsi legalmente, e vivere nell'agiatezza coi beni che le restavano. Emilia lo avrebbe desiderato quanto lei, ma non si lusingava d'un esito favorevole; le dimostrò l'impossibilità di uscire dalla porta, assicurata e guardata con tanta cautela; l'estremo pericolo di confidarsi alla discretezza di un servo, che avrebbe potuto tradirla per malizia o imprudenza; e la vendetta infine di Montoni, se avesse scoperto la trama…

      Questa lotta di contrari affetti lacerava il cuore della zia, quando entrò d'improvviso il marito, e senza parlare della di lei indisposizione, le dichiarò venir a rammentarle quanto indarno essa tentasse di resistere ai suoi voleri. Le accordò tutto il giorno per acconsentire alla sua domanda, protestandole, in caso di rifiuto, che la sera medesima l'avrebbe rilegata nella torre di levante; aggiunse che molti cavalieri dovendo pranzare quel giorno istesso nel castello, essa farebbe gli onori della tavola colla nipote. La signora Montoni non voleva accettare, ma riflettendo che durante il pranzo, la sua libertà, sebben ristretta, avrebbe potuto favorire i suoi progetti, acconsentì; il marito ritirossi tosto. L'ordine ricevuto penetrava Emilia di maraviglia e timore; fremeva all'idea di trovarsi esposta a tali sguardi, e le parole del conte Morano non erano fatte per calmarla. Le convenne dunque prepararsi per comparire al pranzo, ma si vestì anche più semplicemente del solito, per evitare d'essere distinta. Questa politica non le riuscì, giacchè, quando tornò dalla zia, Montoni, rimproverandole il suo far dimesso, le prescrisse un abbigliamento più ricercato, adoperando a tal uopo gli ornamenti destinati pel di lei matrimonio con Morano. Adornata col miglior gusto e la massima magnificenza, la bellezza di Emilia non aveva mai brillato tanto. La sua unica speranza in quel punto era che Montoni progettasse meno qualche avvenimento straordinario, che il trionfo dell'ostentazione, spiegando agli occhi dei convitati l'opulenza della sua famiglia. Allorchè entrò nella sala, ov'era ammannito un lautissimo pranzo, il castellano ed i suoi ospiti erano già a mensa; essa andava a prender posto presso la zia, ma Montoni le fe' cenno colla mano; due cavalieri si alzarono, e la fecero sedere in mezzo a loro.

      Il più avanzato in età di costoro era grande, aveva lineamenti caratteristici, naso aquilino, occhi incavati penetrantissimi; il di lui volto era magro e sparuto come dopo una lunga malattia.

      L'altro, in età di circa quarant'anni, aveva fisonomia diversa; sguardo obliquo, ma volpino, occhi castagni, piccoli ed infossati, volto quasi ovale, irregolare e brutto.

      Altri otto personaggi sedevano alla medesima tavola, tutti in divisa, ed avevano tutti un'espressione più o meno forte di ferocia, d'astuzia o di libertinaggio. Emilia li guardava timidamente, rammentandosi la truppa veduta il dì precedente, e si credeva circondata da banditi. Il luogo della cena era un'immensa sala antica ed oscura, illuminata da una sola finestra gotica altissima, dalla quale vedevasi il bastione occidentale e gli Appennini. Ella osservò che Montoni trattava con grand'autorità gli ospiti, i quali ricambiavanlo con dignitosa deferenza. Nel tempo del pranzo non si parlò che di guerra e di politica, di Venezia, dei suoi pericoli, del carattere del doge regnante e dei primari senatori. Finito il pranzo, i convitati, alzatisi, bevvero tutti alla salute di Montoni e alla gloria delle sue imprese. Mentre egli accostava la coppa alla bocca, il vino traboccò spumeggiando e ruppe il cristallo in mille pezzi. Ei faceva uso di quella specie di vetri di Venezia, i quali hanno la proprietà di rompersi allorchè ricevono un liquore avvelenato. Sospettando che qualcuno dei convitati avesse attentato alla sua vita, fece chiuder le porte, e mettendo mano alla spada, lanciò occhiate furibonde su tutti indistintamente, gridando: « Qui c'è un traditore! che tutti quelli che sono innocenti mi aiutino a trovare il colpevole. » I cavalieri proruppero in grida d'indegnazione, e sguainarono le spade. La signora Montoni voleva fuggire, ma il marito le impose di restare, aggiungendo qualche altra cosa che non fu intesa a motivo del tumulto e delle grida. Allora tutti i servi comparvero innanzi a lui, e dichiararono la loro ignoranza. La protesta però non poteva essere ammessa, essendo innegabile che soltanto il vino del castellano era stato avvelenato, per cui bisognava che almeno il dispensiere fosse stato connivente. Quest'uomo, con un altro, la cui fisonomia tradiva la convinzione del delitto, o il timore della pena, fu messo in ceppi e trascinato in un tetro carcere; Montoni avrebbe trattato nella stessa guisa tutti gli ospiti se non avesse temute le conseguenze d'un passo sì ardito: si contentò dunque di giurare che non sarebbe uscito neppur uno, prima che fosse dilucidato quest'affare. Ordinò aspramente alla moglie di ritirarsi, e ad Emilia di accompagnarla.

      Mezz'ora dopo comparve nel di lei gabinetto; Emilia fremè vedendo la sua aria truce, gli occhi sfavillanti di rabbia e le labbra livide. « È inutile tenervi sulla negativa, » gridò egli furente alla moglie, « giacchè ho la prova del vostro delitto: non avete alcuna speranza di perdono se non in una sincera confessione; il vostro complice ha svelato tutto. »

      Emilia fu colpita dall'atroce accusa. L'agitazione della zia non le permetteva di parlare; la sua faccia passava da un estremo pallore ad un rosso infiammato.

      « Risparmiate i discorsi inutili, » disse Montoni, vedendola disposta a parlare; « il vostro contegno basta a tradirvi; or sarete condotta nella torre d'oriente.

      – Quest'accusa, » rispose la moglie, che poteva appena articolar parola, « è un pretesto per la vostra crudeltà; sdegno di rispondervi.

      – Signore, » disse vivamente Emilia, « questa orribile imputazione è falsa; oso rendermene mallevadrice sulla mia vita. Sì, signore, » soggiunse, « questo non è il momento di usar riguardi. Voi cercate ingannarvi volontariamente, al solo fine di perdere la mia povera zia.

      – Se vi è cara la vita, tacete. »

      Emilia, alzando gli occhi al cielo, sclamò: « Non c'è più speranza. »

      Egli si volse alla moglie, la quale, rimessa dalla sorpresa, ne respingeva i sospetti con veemente asprezza. La rabbia di Montoni aumentava; Emilia, prevedendone le conseguenze, si precipitò ai di lui piedi, abbracciandogli le ginocchia e supplicandolo, piangendo, di calmare il suo furore; ma sordo alle preghiere della nipote e alle giustificazioni della moglie le minacciava fieramente amendue, quando fu chiamato. Uscì chiudendo la porta e portandone seco la chiave. Esse dunque si trovarono prigioniere. La Montoni guardava intorno a sè cercando un mezzo di fuggire. Ma come farlo? Sapeva pur troppo fino a qual punto il castello fosse forte, e con qual vigilanza guardato. Tremava di affidare il suo destino al capriccio d'un servo, di cui conveniva mendicare l'assistenza.

      Frattanto intesero gran tumulto e confusione nella galleria; alle volte si sentiva il cozzar delle spade. La provocazione di Montoni, la sua impetuosità, la sua violenza, facevano supporre ad Emilia che le armi sole potessero finire l'orribile contesa. La zia aveva esaurite tutte le espressioni dello sdegno, e la nipote tutte le frasi consolanti. Tacevano amendue in quella specie di calma, che succede nella natura al conflitto degli elementi. Le circostanze di cui Emilia era stata testimone le rappresentavano mille confusi timori, e le sue idee succedevansi in tumultuoso disordine; fu scossa dalla sua meditazione sentendo battere alla porta, e riconobbe la voce di Annetta.

      « Mia cara signora, aprite: ho molte cose da raccontarvi, » diceva sottovoce la povera ragazza. – La porta è chiusa, » rispose la padrona. – Sì, lo vedo, signora, ma per carità apritela. – Il padrone ha portato seco la chiave. – O beata Vergine! che sarà di noi? – Aiutaci ad uscire, » disse la Montoni. « Dov'è Lodovico? – Nella sala grande cogli altri, che combatte valorosamente. – Combatte! e chi sono gli altri? – Il padrone, tutti quei signori, e molti altri. – C'è qualche ferito? » disse Emilia con voce tremante. – Sì, signora, ce n'è qualcuno disteso in terra immerso nel sangue. Gran Dio! fate ch'io possa entrare, signora; ah! eccoli che vengono; mi ammazzano sicuramente. – Fuggi, » disse Emilia, « fuggi; noi non possiamo aprirti. »

      Annetta ripetè che venivano, e fuggì.

      « Calmatevi, zia, » disse Emilia, « per pietà, calmatevi; essi vengono forse per liberarci. Chi sa che il signor Montoni non sia già vinto.

      – Eccoli, »