Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12. Edward Gibbon

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Название Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12
Автор произведения Edward Gibbon
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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disciplina e della decenza; il Conte di Fiandra venia chiamato specchio della castità. Che anzi questi due guerrieri decretarono pena di morte contra i violatori di donne maritate, o vergini, o religiose; e accadde talvolta che i vinti implorassero la protezione di un tale decreto93, e che i vincitori lo rispettassero. La dissolutezza e la crudeltà trovarono un freno nell'autorità de' Capi ed anche ne' sentimenti naturali de' soldati. Questi per ultimo non erano più i Selvaggi del Settentrione, e comunque feroci in quella età potessero ancora sembrar gli Europei, il tempo, la politica e la religione aveano le costumanze de' Francesi e soprattutto degli Italiani addolcite. Ma la loro avarizia ebbe libero campo a disbramarsi nel saccheggio di Costantinopoli, senza riguardo che corresse allora la Settimana Santa. Tutte le ricchezze pubbliche e private appartenevano ai Latini pel diritto di guerra, non temperato in tal circostanza da veruna promessa o Trattato; e ciascun braccio giusta la propria potestà e forza, aveva eguale facoltà per eseguire la sentenza, o appropiarsi le cose in confiscazione cadute. L'oro e l'argento, monetati e non monetati, somministravano materia di universale baratto; ed essendo cose portatili, ciascuno poteva, o nel medesimo luogo, o altrove, convertirle nella guisa al suo stato e al suo carattere meglio addicevole. Fra le ricchezze che il lusso e il commercio avevano accumulate nella capitale, i drappi di seta, i velluti, le pellicce, e gli aromi, erano le più preziose, perchè nelle parti meno ingentilite dell'Europa il danaro stesso non le potea procacciare. Fu prescritto un ordine da serbarsi nel saccheggio; nè lasciavasi al caso, o alla destrezza de' singoli vincitori il regolare la parte che a ciascuno competea; tre chiese vennero scelte a ricettacoli degli spogli, ove fu ingiunto ai pellegrini di portar per intero le loro prede, senza alienarne parte veruna sotto quelle stesse terribili pene in cui cadeano gli spergiuri, gli omicidi, o quelli che dall'anatema eran percossi. Divisa in porzioni eguali la somma del bottino, ne toccavano una al semplice soldato, due al sergente, o soldato a cavallo, quattro al cavaliere, e questo numero di parti a proporzione dei gradi e de' meriti de' Baroni e de' principi si aumentava. Un cavaliere del conte di S. Paolo, convinto di aver trasgredito questo sacro dovere appropiandosi parte indebita dello spoglio, colla sua armadura e col suo scudo al collo venne appiccato. Un esempio tanto severo dovea rendere più circospetti gli altri, benchè sovente l'avidità al timor prevalesse; onde, giusta la generale opinione, fu il bottino segreto di gran lunga superiore a quello che venne pubblicamente distribuito94. Dopo un eguale parteggiamento tra i Francesi ed i Veneziani, i primi scemarono di cinquantamila marchi la propria parte generale per soddisfare il debito che aveano tuttavia colla repubblica di Venezia, rimanendo nullameno ad essi quattrocentomila marchi d'argento95 (circa ottocentomila lire sterline). Non mi soccorre miglior modo d'indicare il valore corrispondente in quel secolo ad una sì fatta somma del dire che pareggiava sette anni della rendita del regno d'Inghilterra96.

      In questa grande vicissitudine politica, abbiamo il vantaggio di poter confrontare fra loro le relazioni di Villehardouin e di Niceta, i giudizj opposti che il Maresciallo di Sciampagna e il Senatore di Bisanzo portavano97. Parrebbe a primo aspetto che le ricchezze di Costantinopoli non avessero fatto altro cambiamento fuor quello di passare da una nazione ad un'altra, e che il danno e il cordoglio de' Greci dal vantaggio e dalla gioia de' Latini stati fossero pareggiati; ma nel funesto giuoco della guerra non è mai eguale alla perdita il guadagno, e a petto delle calamità sono deboli i godimenti. Illusorio e passeggiero fu il giubilo de' Latini. Intanto che i Greci deplorando l'irreparabile scempio della loro patria, vedeano rincalzati i loro affanni dallo scherno e dal sacrilegio de' vincitori. Ma di qual profitto furono a questi i tre incendj che una sì gran parte de' tesori e degli edifizj di Bisanzo distrussero? Qual vantaggio ebbero dalle cose che infransero, o fecero tronche perchè non le potevano trasportare? Che fruttò ad essi l'oro nel giuoco e nelle crapule prodigalizzato? Quante preziose suppellettili i soldati vendettero a vile prezzo per non conoscerne il valore, o perchè impazienti di spacciarsene; talchè sovente il più abbietto mariuolo greco tolse ad essi il prezzo della vittoria! Fra i Greci di fatto sol quella classe di gente che non potea perdere nulla, vantaggiò alcun poco nella pubblica calamità. Tutti gli altri a deplorabilissimo stato furon ridotti. Le sventure di Niceta ce ne porgono un saggio. Incenerito, per effetto del secondo incendio, il magnifico palagio ove dianzi dimorava, questo misero Senatore, seguìto dalla famiglia e dagli amici, si riparò ad una picciola casa che in vicinanza alla chiesa di S. Sofia tuttora rimanevagli. Fu alla porta di questa casa, ove il mercatante veneziano, vestito da soldato, diede a Niceta il modo di salvare con una precipitosa fuga la castità della figlia, e i miseri avanzi de' posseduti tesori. Questi sciagurati fuggitivi già avvezzi a nuotare nella abbondanza, partirono a piedi nel cuore del verno. La moglie di Niceta era incinta; pur furono costretti, essendone disertati gli schiavi, ella e il marito a portar sugli omeri le proprie bagaglie. Le donne di questa famiglia poste in mezzo alla comitiva, venivano esortate a nascondere la propria avvenenza, col bruttar di fango il volto, che dianzi erano use ad imbellettarsi; perchè ciascun passo le avventurava ad insulti e pericoli; ma le minacce degli stranieri, lor pareano anche meno insopportabili dell'insolenza de' plebei, che divenuti eguali ad essi si riguardavano. Finalmente respirarono con più sicurezza a Selimbria, città lontana quaranta miglia da Costantinopoli, e che fu termine di quel doloroso pellegrinaggio. Cammin facendo, incontrarono il Patriarca, solo, mezzo ignudo, a cavallo ad un asino, e ridotto a quell'appostolica indigenza, che se fosse stata volontaria, avrebbe potuto non andar priva di merito. In questo medesimo tempo i Latini, trascinati da licenza e spirito di fazione, spogliavano e profanavano le sue chiese, e strappate dai calici le perle e le gemme che li fregiavano, ad uso di nappi convivali sen valsero. Giocavano e gavazzavano, seduti a quelle tavole, ove effigiato vedeasi Cristo co' suoi appostoli: calpestavano co' piedi i più venerabili arredi del culto cristiano. Nella chiesa di S. Sofia, i soldati fecero in brani il velo del Santuario, per torgli la frangia d'oro; buttarono in pezzi, e se lo spartirono, l'altar maggiore monumento dell'arte e della ricchezza de' Greci; stavano in mezzo alle chiese i muli e i cavalli per caricare sovr'essi i fregi d'oro e d'argento che staccavano dalle porte e dalla cattedra del Patriarca; e quando questi animali si curvavano sotto il peso, gl'impazienti conduttori ne li punivano coi lor pugnali, e di quel sangue rosseggiava il pavimento del tempio. Una meretrice andò ad assidersi sullo scanno del Patriarca, e questa figlia di Belial, dice lo Storico, cantò e ballò nella chiesa per porre in derisione gl'inni e le processioni degli Orientali: l'avidità condusse indi costoro nella chiesa degli Appostoli, ove stavano le tombe de' Sovrani; al qual proposito si vuol far credere, che il corpo di Giustiniano, sepolto dopo sei secoli, venne trovato intatto e senza dare alcun segno di putrefazione. I Francesi e i Fiamminghi correvano le strade della città, avvolti i capi in cuffie di veli ondeggianti, e vestiti di abiti sacerdotali variamente dipinti, e de' quali persin bardamentavano i proprj cavalli: la selvaggia intemperanza delle loro orgie98, insultava la fastosa sobrietà degli Orientali, e per deridere le armi più adatte ad un popolo di scribacchini e studenti, si trastullavano con penne, calamai, carta alla mano; nè s'accorgevano certo che gli strumenti della Scienza, adoperati dai moderni Greci, divenivano per essi deboli ed inutili quanto quelli del valore lo erano stati.

      Nondimeno l'idioma che parlavano i Greci e l'antica rinomanza, sembravano attribuir loro un qualche diritto di schernire l'ignoranza dei Latini e i deboli progressi del loro ingegno99, e quanto ad amore e rispetto per le Belle Arti, la diversità fra le due nazioni più manifesta ancor si mostrava. I Greci serbavano tuttavia con venerazione i monumenti de' loro antenati che imitar non sapevano; nè noi possiamo starci dal partecipare al dolore e all'ira di Niceta, a quella parte di racconto ove narra la distruzione delle statue di Costantinopoli100. Abbiam già veduto nel corso della presente opera come il dispotismo e l'orgoglio di Costantino, avessero incessantemente contribuito ad abbellire la sua nascente Metropoli. E Dei ed Eroi sopravvissuti alla rovina del Paganesimo, e molti resti di un secolo più fiorente, ornavano ancora il Foro e l'Ippodromo. Dalla descrizione pomposa e ricercatissima, che di parecchi fra questi monumenti ne ha lasciata Niceta101, sonomi studiato di ritrarre il seguente specchio delle cose più meritevoli d'intertenere una erudita curiosità. I. Le immagini de' condottieri dei carri,



<p>93</p>

Niceta salvò, indi sposò una nobile vergine, che un soldato, επι μαρτυτι πολλοις ονηδον επιβρωμωμενος, lascivamente smanioso in faccia a molti testimonj, quasi violò senza riguardo a εντολαι, ενταλματα ευ γεγονοτων, alle massime od ai precetti delle persone ben nate.

<p>94</p>

Intorno al valor generale di tutto lo spoglio il Gunther lo riguarda tale, ut de pauperibus et advenis cives ditissimi redderentur (Hist. C. P. c. 18); il Villehardouin (n. 132) osserva che dopo la creazione del mondo ne fu tant gaignié dans une ville, e Baldovino (Gesta, c. 92) ut tantum tota non videatur possidere Latinitas.

<p>95</p>

V. Villehardouin (n. 133-135). Evvi una variante nel testo, per cui può leggersi e cinquecentomila e quattrocentomila. I Veneziani aveano fatta la profferta di prendersi per sè tutto lo spoglio, indi sborsare quattrocento marchi a cadaun cavaliere, dugento a cadaun sergente, cento a cadaun soldato; contratto che non sarebbe stato vantaggioso per la Repubblica (Le Beau, Hist. du bas-Empire, l. XX, p. 506, non so poi su qual fondamento).

<p>96</p>

Nel Concilio di Lione (A. D. 1295) gli ambasciatori d'Inghilterra valutarono la rendita della Corona, inferiore a quella del clero straniero, che ascendeva a sessantamila marchi annuali (Mattia Paris, p. 451; Hume Storia d'Inghilterra, vol. II).

<p>97</p>

Niceta descrive in patetica guisa il saccheggio di Costantinopoli e le sciagure che personalmente il percossero (p. 367-369, e Status urbis C. P., p. 375-384). Innocenzo III, Gesta, c. 92 conferma perfino la realtà de' sacrilegj deplorati da Niceta: ma Villehardouin non lascia scorgere nè pietà, nè rimorsi.

<p>98</p>

Se ho ben inteso il testo greco di Niceta, le loro vivande predilette eran cosce di manzo a lesso, maiale salato condito coi ceci, zuppa con aglio ed erbe forti, o acide (p. 582).

<p>99</p>

Niceta si vale di espressioni durissime αγραμματοις βαρβαροις, και τελεον αναλφαβητοις Barbari illetterati, e totalmente ignari dell'abbicì. (Fragm. apud Fabricium, Bibl. Graec., t. VI, p. 414). Vero è che questo rimprovero si riferisce principalmente alla loro ignoranza della lingua greca e delle sublimi opere di Omero. I Latini del dodicesimo e tredicesimo secolo non mancavano di opere di letteratura nella propria lingua. V. le Ricerche filologiche di Harris, p. 3, c. IX, X, XI.

<p>100</p>

Niceta, nativo di Cona in Frigia (antico Colosso di S. Paolo) era pervenuto al grado di Senatore, di Giudice del Velo e di gran Logoteta. Dopo la rovina dell'Impero, di cui fu vittima e testimonio, si ritrasse a Nicea, ove compose una compiuta e accurata storia che procede dalla morte di Alessio Comneno insino al regno di Enrico.

<p>101</p>

Un manoscritto di Niceta (nella biblioteca Bodleana) contiene questo singolare frammento che riguarda lo stato di Costantinopoli, e che o ad arte, o per vergogna, o piuttosto per trascuratezza è stato ommesso nelle precedenti edizioni. Lo ha pubblicato il Fabrizio (Bibl. graec., t. VI, p. 405-416), e l'ingegnoso Harris di Salisbury non ha limiti nel lodarlo (Ricerche filologiche part. III, cap. V).