Название | Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV |
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Автор произведения | Botta Carlo |
Жанр | Зарубежная классика |
Серия | |
Издательство | Зарубежная классика |
Год выпуска | 0 |
isbn |
Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio, con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute di Francia.
L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro. Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj, quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti, giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte.
In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené, che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare, che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune, che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio. Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli, che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza del re.
Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse; che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj contro una nazione amica.
Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza