Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo

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Название Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III
Автор произведения Botta Carlo
Жанр Зарубежная классика
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si alterava gravemente il vincitore; poi tornando sull'antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava, quanto fosse in lui lo sprezzo della neutralità.

      Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine, generale, che reggeva la Lombardia. Biasimava il comandante di Bergamo del non averlo fatto consapevole degli accidenti seguiti, sperava, non ne fosse partecipe, gli proibiva di mescolarsene; se il facesse, il punirebbe, essere neutralità fra le due repubbliche, volere il generalissimo, volere lui stesso, che se le portasse rispetto. Se questa lettera di Kilmaine fosse vera o finta, non si sa, perchè è di data incerta. Del resto l'opera del comandante nell'ajutare la ribellione di Bergamo, era notoria, non solo in questa città, ma ancora in tutta Lombardia, e metterla in dubbio era un'astuzia ridicola; nè il comandante medesimo fu mai tradotto in giudizio.

      Come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che si fossero, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema, opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Francesi; perchè il giorno ventisette marzo, appresentatasi una squadra di cavallerìa di Francia alla porta, chiedeva il comandante l'entrata, promettendo di non inferire molestia, e sarebbe dimani partito per Soncino. Introdotti, si portarono quietamente quel giorno. Ma il dì seguente comparivano due compagnie armate della medesima nazione; una verso la porta Ombriano, l'altra verso quella del Serio, nè così tosto si erano avvicinate alle mura, che le truppe di dentro aprivano le porte, per modo che, dato il varco, e per far più presto, scalando alcuni le mura, si facevano padroni della terra. Correvano quindi a disarmare i soldati Veneziani: s'impossessavano dei quartieri, occupavano il palazzo pubblico, minacciavano nella vita con l'armi inarcate il podestà, e, disarmato, costringevano a dismettere l'ufficio. Occupavano al tempo stesso la camera, il monte, il fondaco, gli uffici, le cancellerie. Taciute tutte le altre iniquità usate a Venezia, se questa sola della violenta occupazione di Crema non bastasse per giustificare il senato a sorgere subitamente con l'armi in mano contro i Buonapartiani, il diranno tutti coloro, ai quali sta più a cuore la giustizia, che la forza.

      Arrivava a Crema l'Hermite già partecipe del rivolgimento di Bergamo, e si metteva all'atto di blandire il podestà con parole soavi, dell'ufficio dolcemente esercitato lodandolo. Somiglianti parole usava l'ufficiale del direttorio, che, distrutta per forza e per inganno l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne giva affermando, che i Francesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Mescolaronsi in questo moto pochi uomini del paese, fra i quali principalmente comparirono il marchese Gambazocca, ed i conti Asperti, Locatelli, e Romini venuti da Bergamo. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero, ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del lione di San Marco, come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Così Crema per opera dei soldati Buonapartiani fu ridotta a divozione dei novatori. Kilmaine, che aveva scritto la bella lettera pel fatto di Bergamo, se ne stette tacendo per quel di Crema.

      Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi pensieri tanto nei capi Francesi, quanto nel senato Veneziano, così come ancora fra i sudditi, che si conservavano fedeli. Vedevano i primi, che l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma importanza ai loro ulteriori disegni; perchè oltre al più facile vivere per la ricchezza di quei territorj, i novatori, che gli secondavano, divenivano e più audaci e più numerosi. Faceva in questo loro esempio grandissimo frutto, e nuova gente novatrice, siccome un nembo ne tira un altro, si accostava. Principale fondamento a tutto questo moto era Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi. Quivi ancora gli ottimati, o che amassero la libertà, o che avessero gelosia contro i patrizi Veneti, o che solamente si fossero lasciati stravolgere dalla vertigine comune, favorivano la rivoluzione. Nel che Brescia si diversificava da Bergamo, dove i più fra i ricchi si mostravano avversi. Accorrevano poi a Brescia Dombrowski co' suoi Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole, animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani, Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuamente, chi con lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi, erano incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse andar sossopra tutta, ed a ruina la Veneziana repubblica. Lahoz, Gambara, Lecchi, ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato in questi moti, trionfavano. Queste cose vedevano con gli occhi loro i capi dell'esercito Francese, e le passavano: se le sapeva Buonaparte, e le passava con troppa più sopportazione, che si convenisse alla sincera fede.

      Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma Veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose, proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza, e per essere passo del fiume. Questo era anche risolutamente l'intento di Buonaparte; perciocchè più di un mese prima che sorgesse la sollevazione di Verona, aveva dato ordine a' suoi comandanti in questa città, che procurassero la rivoluzione medesima con tutte le forze, e con tutte le arti loro. Nel che con maneggi, parte segreti, parte palesi il secondavano. Mentre tutti quest'inganni si tramavano, non erano ancora le cose sicure pei Francesi, che tuttavia si trovavano a fronte dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in Verona contro i Veneziani, gli rappresentava, che il moto in lei sarebbe riuscito pericoloso, e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo più propizio. Rispondeva, gisse pure, e sommuovesse Verona. Poi soggiungeva, che se la sommossa andasse bene sarebbe libera l'Italia, se male, la Cisalpina repubblica (con tal nome dopo la conquista di Mantova aveva chiamato la Transpadana) almeno resterebbe. Dette queste parole, accommiatava Pico, raccomandandogli, s'intendesse con Beaupoil e con Kilmaine, e gli desse ragguaglio di tutto che accadesse: desse intanto ricovero in Mantova ai patriotti che fossero in pericolo, e gli rendesse sicuri, che sarebbero liberi. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a Verona; perchè colà mandavano agenti segreti, parte da Brescia medesima, parte da Desenzano, parte da Lonato, affinchè cooperassero alla sollevazione. Così Verona era insidiata da Buonaparte, da' suoi capitani, dai novatori armati, dai novatori non armati, Italiani, Polacchi, Svizzeri, e Francesi. Non ostante tutto questo il canuto Lallemand, ed il giovane Buonaparte sempre protestavano a nome di Francia dell'incontaminata fede, e della sincera amicizia verso la repubblica Veneziana.

      Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo Veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quelli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni: vi mandava due provveditori straordinari, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Niccolò Erizzo, uomo di natura molto calda, ed amantissimo del nome Veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilj, personaggio ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa, che in poter suo fosse, facesse, per isventare le macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte Emilio, e tra l'autorità del suo nome, e l'efficacia delle sue ricchezze, faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a se buoni e cattivi per tenere in piede l'insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte Verità, ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno l'orribile governo, che facevano delle province le truppe repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù innaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in guerra, eran fatti pagare dai comuni. Quel dei Due Castelli, situato sull'agro Veronese, e composto appena