Название | Natalìa ed altri racconti |
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Автор произведения | Enrico Castelnuovo |
Жанр | Языкознание |
Серия | |
Издательство | Языкознание |
Год выпуска | 0 |
isbn | 4064066069537 |
— A sessant'anni appena! — notò un signore calvo che si rasciugava i sudori.
— È una gran perdita per la piazza! — soggiunse un altro.
— Un colpo d'occhio, uno spirito d'iniziativa! — disse un terzo.
I nipoti, chiamati dai loro uffici, uscirono dalla stanza nella quale s'erano raccolti a poco a poco tutti i pezzi grossi della finanza milanese. Sentivo intorno a me come un odor di milioni. E sentivo anche discorrere a bassa voce dei corsi della rendita, del riporto fine corrente, dei cambi, dell'aggio dell'oro, dell'Assemblea della Banca Generale e del Credito Mobiliare, della politica finanziaria del Ministero, e via via. Del morto non si discorreva più. Doveva esser vero quel che mi era stato detto; che, com'egli non aveva una famiglia sua, così non aveva amici intimi; aveva, in gioventù, atteso a' suoi piaceri; aveva atteso nella maturità alle sue speculazioni; corretto, ossequente alla legge, osservantissimo dei suoi impegni, ma in complesso un fior d'egoista.
Si udì un bisbiglio di preci nell'andito, un bagliore di faci passò attraverso il vano dell'uscio aperto; poi tutta la gente ch'era pigiata nel salotto si mosse e cominciò la discesa giù per la scala. Fu un gran sollievo il trovarsi all'aria aperta.
Il nipote grasso che aveva preso a volermi bene oltre a' miei meriti, mi accompagnò fino al carro; un impiegato delle pompe funebri mi assegnò il mio posto alla destra del feretro, e dopo qualche minuto speso per ordinare il corteggio ci mettemmo in cammino preceduti dalla banda civica che suonava la marcia del Don Sebastiano.
A tenere i cordoni eravamo in dieci. Io non conoscevo nè gli altri quattro ch'erano dalla mia parte, nè i cinque ch'erano dalla parte opposta; non conoscevo il morto, non conoscevo quasi nessuno di quelli che formavano la lunga processione. Poichè era lunga davvero, più di quello che non mi fossi immaginato, e le finestre delle case davanti a cui passavamo erano piene di curiosi, e di là dalle due file di servi e di fattorini che portavano le torcie accese si vedeva la folla assiepata sui marciapiedi.
L'ufficio funebre venne celebrato nella Prepositurale di San Marco; dopo di che il convoglio, molto assottigliato, si avviò al cimitero.
Ed ecco che passando per il Corso Garibaldi, vediamo dinanzi alla chiesa di San Simpliciano un altro corteggio che stava per muoversi anch'esso, ma che ci lasciò il passo con la deferenza che i funerali di terza classe devono a quelli di prima. Un carro dimesso tirato da un cavallo unico ed umile, e guidato da un cocchiere non umile per sè ma vergognoso di condurre al Camposanto un così povero morto. Sul feretro una sola, piccola ghirlanda di fiori freschi, misero riscontro al lusso di corone che coprivano il feretro illustre.
Un fattorino della Banca Nazionale che mi camminava a fianco si voltò verso un compagno e disse: — L'è il povero Bertizzoni.
L'altro accennò affermativamente col capo.
Rimasi colpito da quel nome di Bertizzoni e non potei a meno di chiedere: — Bertizzoni? Era uno qui di Milano?
— Stava qui da anni annorum.... Ma non era mica nato a Milano.... Tò, adesso che ci penso mi pare che fosse nato a Venezia.... Il signore lo conosceva?
Anzichè rispondere feci una nuova domanda. — Era vecchio?
— Sulla cinquantina.
— E il nome di battesimo?...
— Oh un nome stravagante, Licurgo.
— Licurgo?
— Già.
— Era impiegato?
— Adesso era nella casa Gondrand.
— La casa di spedizioni?
— Appunto.
— E lascia famiglia?
— La vedova e un figliuolo, un bravo ragazzo ch'è alla Cooperativa.
Per quanto la conversazione fosse fatta piano, essa non poteva passare inosservata ai vicini. E un signore grande e grosso che doveva essere un personaggio d'importanza e che teneva uno dei cordoni davanti a me slanciò ripetutamente un'occhiata al fattorino come per ammonirlo a tacere. Compresi anch'io la sconvenienza di quel dialogo in quel momento, in quel luogo, e non aggiunsi altre interrogazioni.
Del resto, non avevo più dubbio alcuno. Una coincidenza di nome e cognome, e d'un nome così fuor del comune, era impossibile. Licurgo Bertizzoni era certo il mio antico condiscepolo, figliuolo di quel maestro elementare, Agenore Bertizzoni, che aveva la passione dei nomi greci. Un fratello di Licurgo si chiamava Socrate, una sorella Cassandra, un'altra Aspasia. Era una famiglia che contrastava il desinare con la cena, e doveva ricorrere a mille espedienti per tirare innanzi; il maestro Agenore la sera copiava musica, e la sua consorte, la signora Palmira, si occupava di combinar matrimonî. Buona gente però, e gente allegra, ospitale. Con Licurgo eravamo coetanei, avevamo percorso insieme le scuole reali e la nostra amicizia era durata alcuni anni dopo la scuola. Tra il 1855 e il 1858 o io andavo a prenderlo la sera o egli veniva a prender me per uscire insieme; anzi più spesso andavo io da lui per merito delle sorelle vispe, floride, belloccie. Non giurerei di non avere abbozzato con la Cassandra un romanzo che finì con poca mia gloria, perch'ella sposò, non rammento se nel 56 o nel 57, un uomo maturo, impiegato alla Contabilità, e che fu tosto traslocato a Pavia. Chi sa dove sarà andata a finire? Sullo scorcio del 1858 le disgrazie caddero come gragnuola secca su quella casa di galantuomini, e successe una gran dispersione. Prima morì la signora Palmira, poi il maestro Agenore; l'Aspasia, in seguito a un disinganno amoroso, volle a tutti i costi entrare in un monastero; Socrate s'imbarcò su un bastimento mercantile comandato da un capitano dalmato ch'era suo lontano parente; Licurgo, rimasto solo, campava la vita facendo lo scribacchino presso uno spedizioniere e ingrossando il magro stipendio con qualche debituccio. Gli piacevano le donne e aveva, relativamente alle sue forze, le mani bucate. Nel 1859 egli fece quello ch'io non potei fare; emigrò in Piemonte e si arruolò volontario. Ci scambiammo una mezza dozzina di lettere prima che cominciasse la guerra. A campagna finita egli mi riscrisse da Torino ove aveva un'occupazione provvisoria in attesa degli avvenimenti che non potevano tardare e che lo avrebbero ricondotto a Venezia. Nel 1860 riprese le armi. In dicembre mi mandò sue notizie da Napoli. Aveva lasciato il servizio e si proponeva di stabilirsi in quella città fino a un'altra guerra che cacciasse definitivamente gli Austriaci di là dall'Alpi. A Venezia non sarebbe tornato che con le nostre truppe. Non ci aveva più nessuno di famiglia; l'Aspasia, dopo la sua vestizione, era come morta per lui; io ero un carissimo amico, mi avrebbe rivisto con tanto piacere; ma ero un giovinotto; potevo ben andare a cercarlo. Il bello si è ch'egli non mi dava nemmeno il suo indirizzo. Così la mia risposta non dev'essergli pervenuta. Ed egli non scrisse più e passarono gli anni senza che mi fosse dato saper nulla sul conto suo. Nella vita entrano ogni giorno nuove relazioni, nuovi interessi, nuovi affetti; altri legami si allentano, altre immagini si scolorano e a grado a grado svaniscono. Non dirò che questo accadesse in me dell'immagine di Licurgo Bertizzoni, ma è certo ch'io pensavo a lui sempre meno. Ci ripensai nel 1866, quando le sorti d'Italia s'agitarono nuovamente nel formidabile quadrilatero e nelle valli del Trentino. Bertizzoni era uomo capace d'essersi rimesso in ispalla il suo bravo fucile e d'aver intrapreso, magari da soldato semplice, questa terza campagna. Io avevo un bel dire che sacrosanti doveri domestici m'impedivano di fare altrettanto; lo ammiravo e lo invidiavo. Lo so; egli era un ingegno appena mediocre; non aveva mai avuto passione per lo studio; era un po' leggero di carattere; ma che importa? Nell'ora del bisogno egli era sempre pronto a dare il suo sangue alla patria; mentre altri avevano in serbo delle ottime scuse per non rischiare la pelle. Nel periodo angoscioso corso fra il 24 giugno e l'armistizio, leggendo avidamente i giornali che ci arrivavano di nascosto d'oltre Po e d'oltre Mincio, io speravo e temevo ad un tempo d'incontrarvi il nome di Licurgo Bertizzoni. Speravo di vederlo citato per qualche atto di valore; temevo di trovarlo nella lista dei volontari morti a Custoza, a Bezzecca, a Monte Suello. Nulla. Egli non cercava nè la gloria nè la notorietà, e il silenzio compiacente si stendeva sopra di lui.