Alla conquista di un impero. Emilio Salgari

Читать онлайн.
Название Alla conquista di un impero
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
Серия
Издательство Зарубежная классика
Год выпуска 0
isbn



Скачать книгу

bâg che si dice sia tutta nera e che commette delle stragi terribili.

      – Quale luogo frequenta?

      – Le jungle di Kamarpur.

      – Sono lontane?

      – Una ventina di miglia, non di più.

      – Al di là del Brahmaputra?

      – Non è necessario attraversare il fiume.

      – È vero che ha mangiati i figli del rajah?

      – Sì, sahib.

      – Quando?

      – L’anno scorso.

      – E come?

      – Il rajah seccato dai continui reclami dei suoi sudditi, s’era finalmente deciso di porre fine alle stragi che commetteva quella admikanevalla ed aveva incaricato i suoi due figli di dirigere la battuta.

      Erano fanciulli, assolutamente incapaci di condurre a termine una così difficile impresa. Temendo però la collera del padre si erano ben guardati dal rifiutarsi. Non si sa veramente come siano andate le cose; però ti posso dire che due giorni dopo furono trovati i loro corpi, semi-divorati, pendenti da un ramo d’un albero.

      – Si erano imboscati lassù?

      – Dove li avevano messi e legati – disse Bindar.

      – Che cosa vuoi dire?

      – Che sotto la pianta furono trovate delle corde strappate, – rispose l’indiano.

      – E vuoi concludere?

      – Che si sussurra qui, che il rajah avesse approfittato di quella tigre per sbarazzarsi di quei due fanciulli che forse gli davano noia.

      – Per Giove! – esclamò Yanez inorridito.

      – Eh! Sahib! Sindhia è fratello di Bitor, il rajah che regnava prima e che tutti detestavano per le sue infamie.

      – Ah! Ho capito – rispose il portoghese aggrottando la fronte.

      Poi mormorò fra sé:

      – Il greco, la tigre nera che ha mangiato i figli del rajah, l’invito ad andarla ad ammazzare. Che cosa ci sarà sotto tutto ciò? Fortunatamente ho la Tigre della Malesia, Tremal-Naik e Kammamuri sotto mano, tre unità formidabili, come direbbe un marinaio moderno.

      La bâg cadrà, non ne dubito e allora, mio caro Sindhia, non sarà una semplice rappresentazione quella che ne pagherà le spese. Ci vuol ben altro! Una corona per Surama e per me. —

      Lanciò nuovamente i cavalli al galoppo allontanandosi dalla città parecchie miglia e volgendosi di quando in quando per vedere se era seguito da qualche altro mail-cart.

      Quando il sole tramontò fece ritorno, inoltrandosi nei boschi che sorgevano di fronte al tempio sotterraneo.

      – Occupati dei cavalli, – disse all’indiano.

      Sulla soglia della pagoda lo aspettavano, con viva impazienza, Sandokan e Tremal-Naik.

      – Dunque? – chiesero ad una voce.

      – Tutto va bene, – rispose Yanez ridendo. – Il rajah è mio amico. —

      Poi estraendo una sigaretta proseguì:

      – Vi spiacerebbe cacciare domani una tigre pericolosissima?

      – A me lo domandi? – rispose Sandokan.

      – Allora fa’ preparare le tue armi. Prima che il sole spunti ci troveremo al palazzo del rajah.

      – Che cosa dici, Yanez? – chiese Tremal-Naik.

      – Venite, – rispose Yanez. – Vi racconterò tutto. —

      8. La tigre nera

      Erano appena suonate le tre del mattino quando Yanez, seguìto da Sandokan, da Tremal-Naik e dai sei malesi giungeva dinanzi al palazzo reale, per intraprendere la caccia della terribile kala-bâgh ossia la tigre nera.

      Fino dal giorno innanzi avevano noleggiati tre grandi tciopaya, ossia carri indiani tirati da una coppia di zebù, non essendo conveniente che un uomo bianco e per di più inglese, si recasse ad un appuntamento a piedi e senza una scorta numerosa.

      Il maggiordomo della corte aveva preparato ogni cosa per la grande caccia.

      Tre magnifici elefanti, che reggevano sui poderosi dorsi delle comode casse destinate ai cacciatori, prive di cupolette onde non intralciare il fuoco delle carabine e montati ognuno da un mahut, stavano fermi in mezzo alla piazza, circondati da una dozzina di behras, ossia di valletti che tenevano a guinzaglio una cinquantina di bruttissimi cani, di statura bassa, incapaci di tenere testa ad una belva così pericolosa, ma necessari per scovarla.

      Dietro agli elefanti stavano due dozzine di scikari, ossia battitori, armati solamente di picche e quasi nudi, onde essere più lesti a fuggire dopo aver stanata la belva.

      – Siamo pronti, sahib – disse il maggiordomo inchinandosi profondamente dinanzi a Yanez.

      – Ed io essere contentissimo, – rispose il portoghese degnando lo appena d’uno sguardo.

      – Buoni elefanti?

      – Provati e abituati alle grosse cacce, sahib. Scegli quello che meglio ti conviene.

      – Quello, – disse Tremal-Naik, indicando il più piccolo dei tre pachidermi e che aveva delle forme massicce, poderose e due denti superbi. – È un merghee di buona razza. —

      I mahuts avevano gettate le scale di corda.

      Yanez, Tremal-Naik e Sandokan presero posto nella cassa del merghee, Kammamuri coi malesi in quelle degli altri, insieme col maggiordomo che doveva dirigere la battuta.

      – Avanti! – disse Yanez al mahut.

      I tre pachidermi si misero subito in marcia mandando tre formidabili barriti, seguiti subito dagli scikari e dai behras che conducevano i cani, i quali latravano a piena gola.

      In meno di mezz’ora la truppa fu fuori dalla città, poiché gli elefanti procedevano di buon passo obbligando la scorta a correre per non rimanere indietro e si diresse attraverso le boscaglie che si estendevano, quasi senza interruzione, fino nei dintorni di Kamarpur.

      Yanez, dopo aver accesa la sua eterna sigaretta e d’aver bevuto un lungo sorso d’arak, si era seduto dinanzi a Tremal-Naik dicendogli:

      – Ora tu, che sei indiano e che hai passati tanti anni nelle Sunderbunds, ci spiegherai che cos’è questa tigre nera.

      Noi conosciamo quelle bornesi e là di nere non ne abbiamo mai vedute, è vero Sandokan? —

      Il pirata che fumava placidamente il suo cibuc, gettando in aria, con lentezza misurata, delle nuvole di fumo, fece col capo un cenno affermativo.

      – Quella che noi indiani chiamiamo kala-bâgh non è veramente nera, – rispose Tremal-Naik. – Ha il mantello simile a quello delle altre: siccome però sono le più feroci, i nostri contadini credono che incarni una delle sette anime della dea Kalì che come sai si chiama anche la Nera.

      – Non si tratterebbe quindi che di uno di quei terribili solitari che gli inglesi chiamano man’s eater ossia mangiatori d’uomini.

      – E che noi chiamiamo admikanevalla o admiwala kanâh.

      – Una bestia sempre pericolosa.

      – Terribile, Yanez – disse Tremal-Naik, – perché quelle tigri sono ordinariamente vecchie, per ciò rotte a tutte le astuzie e d’una voracità spaventosa.

      Non potendo, in causa dell’età che le priva dello slancio giovanile, cacciare le antilopi od i buoi selvaggi, s’imboscano nei dintorni dei villaggi o si nascondono in prossimità delle fontane in attesa che le donne vadano a prendere acqua.

      Sono d’una prudenza straordinaria, conoscono luoghi e persone, attaccando di preferenza gli esseri deboli e sfuggendo quelli che potrebbero tenere a loro testa.

      – Vivono sole? – chiese