Название | Assassino Zero |
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Автор произведения | Джек Марс |
Жанр | Шпионские детективы |
Серия | Ein Agent Null Spionage-Thriller |
Издательство | Шпионские детективы |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9781094305769 |
E mentre faceva ciò, il telefono vicino a lui suonò di nuovo.
“No”, si disse. Era il giorno del ringraziamento. Le uniche cose sul suo programma erano graziare un tacchino, fare alcune foto con le sue figlie e poi godersi un buon pasto privato con loro. Perché lo stavano disturbando all'alba di un giorno di vacanza?
Un forte bussare alla porta lo fece sussultare. Rutledge si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi e disse ad alta voce: “Sì?”
“Signor presidente”. Una voce femminile lo chiamò attraverso la spessa porta della suite padronale della Casa Bianca. “Sono Tabby. Posso entrare?”
Era Tabitha Halpern, il suo capo di stato maggiore. Se si presentava così presto, questo significava che non portava notizie buone, né tantomeno un caffè.
“Se proprio devi”, mormorò.
“Signore?” Non l'aveva sentito.
“Vieni, Tabby”.
La porta si aprì e la Halpern entrò; indossava un elegante tailleur blu scuro con una camicetta bianca. Fece due passi verso di lui e poi si fermò altrettanto all'improvviso, lanciando lo sguardo sul tappeto, visibilmente a disagio di fronte al presidente sdraiato sul letto in pigiama di seta.
“Signore”, gli disse, “c'è stato un… incidente. È necessario che si presenti nella Stanza delle Decisioni”.
Rutledge si accigliò. “Che tipo di incidente?”
Per un attimo, la donna esitò prima di rispondere. “Un sospetto attacco terroristico all’Avana”.
“Il giorno del ringraziamento?”
“È successo a tarda notte, ma… tecnicamente sì, signore”.
Rutledge scosse la testa. Che tipo di perversi potevano aver pianificato un attacco durante un giorno di festa? A meno che…” Tabby, Cuba celebra il Ringraziamento?”
“Signore?”
“Non importa. C'è tempo per un caffè?”
Lei annuì. “Gliene farò arrivare uno immediatamente”.
“Fantastico. Dì loro che sarò lì tra venti minuti”.
Tabby si girò sui tacchi e uscì dalla camera da letto, chiudendo la porta dietro di sé e lasciando Rutledge a brontolare sottovoce per l'ingiustizia della situazione. Alla fine, si alzò, stiracchiandosi e gemendo di nuovo e chiedendosi, per quella che doveva essere stata la diecimillesima volta, come si fosse trovato a vivere alla Casa Bianca.
La risposta tecnica era semplice. Cinque settimane prima, Rutledge era il presidente della Camera, un presidente della Camera davvero bravo, anche se non spettava a lui dirlo. Durante la sua carriera politica aveva guadagnato la reputazione di politico incorruttibile, fedele al suo codice morale e fermo nelle sue convinzioni.
Poi era arrivata la notizia del coinvolgimento dell'ex presidente Harris con i russi e del loro piano di annettere l'Ucraina. Con le prove incontrovertibili della registrazione di un interprete, le procedure di impeachment erano andate vertiginosamente in fretta. Quindi, a pochi minuti dalla mezzanotte prima della definitiva espulsione di Harris, il presidente, per ottenere una pena ridotta, aveva dichiarato il coinvolgimento del suo vicepresidente. Il vicepresidente Brown si era piegato come una sedia da giardino, non potendo in alcun modo negare di essere stato a conoscenza del coinvolgimento di Harris con Kozlovsky e i russi.
Era successo tutto in un giorno. Prima ancora che Rutledge avesse finito di leggere la trascrizione della testimonianza di Brown, l'impeachment di Harris fu approvato dal Senato e il vicepresidente si dimise con un processo in corso. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il terzo uomo nella gerarchia del potere, il Presidente della Camera democratico Jonathan Rutledge, avrebbe preso posto nello Studio Ovale.
Lui non lo voleva. Pensava che guidare la Camera sarebbe stato l'apice della sua carriera; non aveva mai aspirato ad andare oltre. E avrebbe potuto dire quelle tre piccole parole che avrebbero fatto la differenza, “rifiuto l'incarico”, ma così facendo avrebbe deluso tutto il suo partito. Il presidente Pro Tempore del Senato era un repubblicano del Texas, all'estrema destra nello spettro politico per quanto fosse possibile in un sistema democratico.
E così Rutledge divenne il Presidente Rutledge. Il suo prossimo passo sarebbe stato nominare un vicepresidente e far votare il Congresso, ma erano passate quattro settimane dal suo insediamento e non lo aveva ancora fatto, nonostante le crescenti pressioni e le numerose critiche. Era una decisione molto importante, e dopo quello che avevano fatto le ultime due amministrazioni, non c'erano molte persone a voler ancora ambire a quel ruolo. Aveva in mente qualcuno, la senatrice della California, Joanna Barkley, ma dall'inizio del suo mandato la situazione era stata tumultuosa, e aveva l'impressione che polemiche e critiche lo attendessero ad ogni angolo.
Ogni giorno gli venivano date motivazioni sufficienti per voler desistere. Ed era profondamente consapevole di poterlo fare; Rutledge avrebbe potuto nominare Barkley come suo vicepresidente, ottenere il voto di approvazione dal Congresso e quindi dimettersi, facendo di Barkley la prima donna presidente degli Stati Uniti. Avrebbe potuto giustificarlo con il vortice di eventi che avevano caratterizzato l'inizio del suo mandato. Sarebbe stato lodato, immaginava, per aver portato una donna alla Casa Bianca.
Era allettante. Soprattutto quando veniva svegliato con una notizia di un attacco terroristico nel Giorno del Ringraziamento.
Rutledge si abbottonò una camicia e annodò una cravatta blu, ma decise di non indossare una giacca e si rimboccò le maniche. Un inserviente fece entrare un carrello con caffè, zucchero, latte e pasticcini assortiti, ma prese semplicemente una tazza di caffè e la portò con sé mentre due agenti dei Servizi Segreti camminavano silenziosamente al suo fianco mentre procedeva verso la Stanza delle Decisioni.
Quella di venire costantemente scortato era solo un'altra cosa a cui doveva abituarsi. Essere sempre osservato. Non essere mai veramente solo.
I due agenti in abiti scuri lo seguirono giù per una rampa di scale e lungo una sala dove lo aspettavano altri tre agenti dei servizi segreti, i quali al suo arrivo annuirono mormorando “Signor Presidente”. Si fermarono davanti a due doppie porte di quercia; uno degli agenti si dispose di fronte a Rutledge a braccia conserte mentre l'altro gli aprì la porta, introducendolo alla Sala Conferenze John F. Kennedy, una sala di cinquecento metri quadri nel seminterrato dell'ala ovest della Casa Bianca, più comunemente nota come la Stanza delle Decisioni.
Le quattro persone già presenti si alzarono mentre il presidente raggiungeva la sua posizione all'estremità di un tavolo. Alla sua sinistra c'era Tabby Halpern e accanto a lei il segretario alla Difesa Colin Kressley. Il Segretario di Stato e il Direttore dei servizi segreti nazionali erano assenti; erano stati inviati a Ginevra per parlare alle Nazioni Unite sulla guerra commerciale in corso con la Cina e su come questa avrebbe potuto avere un impatto sulle importazioni europee. Al loro posto c'era il direttore della CIA Edward Shaw, un uomo dall'aspetto severo che Rutledge non aveva mai visto sorridere. E accanto a lui c'era una donna bionda sulla trentina, in tenuta professionale ma innegabilmente meravigliosa. Uno sguardo ai suoi occhi grigio ardesia gli riportò un ricordo alla memoria; Rutledge l'aveva incontrata prima, forse al suo insediamento, ma non riusciva a ricordare il suo nome.
Non comprendeva come tutti si fossero riuniti così in fretta, vestiti in modo impeccabile e apparentemente così pronti. Vispi e arzilli, come diceva sua madre. Improvvisamente Rutledge si sentì decisamente sciatto con le sue maniche di camicia arrotolate e la cravatta allentata.
“Accomodatevi”, disse Rutledge mentre si abbandonava su una sedia di pelle nera. “Vogliamo dare a questa materia l'attenzione che merita, ma sicuramente ciascuno di noi vorrebbe essere altrove oggi. Quindi occupiamocene subito”.
Tabby