Название | Assassino Zero |
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Автор произведения | Джек Марс |
Жанр | Шпионские детективы |
Серия | Ein Agent Null Spionage-Thriller |
Издательство | Шпионские детективы |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9781094305769 |
“La scuola è fantastica”, disse infine, forzando un sorriso. Sara aveva già molti problemi, non voleva darle altri pensieri. “Ma un po' noiosa. Dimmi piuttosto come stai tu”.
Sara quasi sbuffò, e poi indicò l'appartamento. “Lo vedi. Sono qui tutto il giorno, tutti i giorni. Guardo la TV. Non vado da nessuna parte. Non ho soldi. Papà mi ha procurato un telefono al lavoro in modo che possa tenere d'occhio le mie chiamate e i miei messaggi”. Poi alzò le spalle, e aggiunse “È come una di quelle prigioni per colletti bianchi in cui mandano politici e celebrità”.
Maya sorrise tristemente alla battuta, e poi con cautela chiese: “Ma tu sei…pulita?”
Sara annuì. “Per quanto possibile”.
Maya si accigliò. Sapeva molto di molte cose, ma non conosceva nulla in merito alle droghe. “Che significa?”
Sara fissò il bancone di granito, tracciando un piccolo cerchio sulla superficie liscia con un dito. “Significa che è difficile”, ammise lei piano. “Pensavo che sarebbe stato più facile dopo i primi giorni, dopo che tutto quello schifo fosse uscito dal mio corpo. Ma non lo è stato. È come… è come se il mio cervello si ricordasse di quella sensazione e la desiderasse ancora. La noia non mi aiuta. Papà non vuole che io abbia ancora un lavoro, perché non vuole che io abbia altri soldi a disposizione finché non starò meglio. Poi sorrise, e aggiunse: “Vuole che studi per prendere il diploma”.
E ha ragione, stava per dire Maya, ma si trattenne. Sara aveva abbandonato la scuola superiore dopo aver raggiunto l’età dell’obbligo, ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era un rimprovero, specialmente in quel momento in cui si stava aprendo con lei.
Ma una cosa era chiara: il problema di Sara era peggiore di quanto Maya pensasse. Pensava che sua sorella minore avesse solamente provato qualche droga e che l'overdose fosse stata un incidente. Tuttavia, era proprio il contrario. Sara era dipendente. E non c'era niente che Maya potesse fare per aiutarla. Non sapeva nulla della dipendenza.
O forse sì?
Improvvisamente ricordò una notte, circa due settimane prima, quando aveva svegliato il suo compagno di dormitorio ritornando dalla palestra all'una del mattino. Il cadetto, irritato e mezzo addormentato aveva borbottato qualcosa riguardo al fatto che fosse “drogata di allenamenti”. E poi Maya era rimasta sveglia per un'altra ora a studiare, per poi svegliarsi il giorno dopo alle sei per andare a correre.
Più ci pensava, più si rendeva conto di sapere tutto sulla dipendenza. Non era dipendente dal dimostrare di essere la migliore? Non era sempre impegnata a inseguire il successo?
E suo padre, anche dopo tutto il tumulto degli ultimi due anni, era comunque tornato al lavoro. Sara bramava ancora la droga come Maya bramava la realizzazione personale e il suo papà bramava il brivido dell'inseguimento, perché forse non erano altro che una famiglia di tossicodipendenti.
Ma Sara era l'unica a riconoscerlo. Forse è la più intelligente di tutti noi.
“Ehi”. Maya allungò la mano prese quella di Sara. “Puoi farcela. Sei più forte di quanto pensi. Ho fiducia in te”.
Sara fece un mezzo sorriso. “Sono contenta che qualcuno abbia fiducia in me”.
“Parlerò con papà”, disse Maya. “Magari si rilasserà un po', ti darà un po' più di libertà…”
“No”, la interruppe Sara. “Il problema non è papà. Lui è fantastico con me; probabilmente meglio di quanto mi meriti”. Il suo sguardo cercò il pavimento. “Il problema sono io. Perché so benissimo che se avessi un centinaio di dollari in tasca e potessi andare dove voglio, dovrebbe venire a cercarmi di nuovo. E la prossima volta potrebbe non arrivare abbastanza velocemente”.
Il cuore di Maya si spezzò per l'ovvio tormento riflesso negli occhi di sua sorella, e poi di nuovo alla consapevolezza che non c'era nulla che potesse fare per aiutarla. Tutto ciò che aveva erano parole vuote di incoraggiamento, che non l'avrebbero aiutata a risolvere i suoi problemi.
All'improvviso si sentì incredibilmente fuori posto in quella cucina. Avevano vissuto così tante situazioni insieme. Crescendo. Avevano pianto la morte di loro madre. Avevano scoperto il lavoro di loro padre. Avevano fatto delle vacanze in famiglia ed erano fuggite da aspiranti assassini. Tutto ciò che si pensasse potesse avvicinare due persone e creare un legame indissolubile, aveva invece creato un vuoto silenzio tra di loro.
Sarebbe stato sempre così d'ora in avanti? La ragazza davanti a lei avrebbe continuato a diventare sempre più irriconoscibile fino a quando non si sarebbero trovate ad essere semplici estranee con un legame di parentela?
Maya voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa, per rompere quel silenzio. Far rivivere qualche ricordo felice. O chiamala topolina, quel nomignolo della loro infanzia che non usava da chissà quanto tempo.
Prima che potesse dire qualcosa, la porta si aprì alle loro spalle. Maya si girò di scatto, stringendo istintivamente i pugni. I suoi nervi saltavano quando si verificavano intrusioni inaspettate.
Ma questa volta non era un intruso. Era suo padre, che trasportava due sacchetti della spesa e avanzava cautamente verso la cucina alla vista di lei.
“Ciao”.
“Ciao, papà”.
Posò le borse della spesa sul pavimento e fece un passo verso di lei, aprendo le braccia, ma poi esitò. “Posso…?”
Lei annuì e lui l'abbracciò. All'inizio fu un abbraccio esitante, ma poi Maya notò, stupita, che aveva lo stesso odore di sempre. Era un profumo straordinariamente nostalgico, un profumo della sua infanzia, un profumo che le ricordava mille altri abbracci. Forse lei era più grande, forse Sara sembrava diversa; forse non era ancora del tutto sicura di chi fosse suo padre e forse si trovavano in un posto nuovo che avrebbero dovuto imparare a chiamare casa, ma in quel momento nulla di tutto ciò sembrava avere importanza. In quel momento si sentì a casa e si abbandonò a lui, stringendolo forte.
Maya aprì la porta scorrevole in vetro sul retro dell’appartamento, indossò una felpa con cappuccio e sfidò l'aria fredda della notte. La casa non aveva un cortile, ma aveva un piccolo patio con un tavolo tozzo e due sedie.
Suo padre era seduto lì, sorseggiava da un bicchiere una bevanda di colore ambrato. Maya si sedette con lui, notando quanto fosse chiara la notte.
“Sara dorme?” chiese.
Maya annuì. “Sonnecchia sul divano”.
“Lo fa spesso recentemente”, disse, con espressione preoccupata. “Dorme molto”.
Lei forzò una leggera risata. “Ha sempre dormito molto. Non mi preoccuperei per questo”. Poi indicò il bicchiere con un cenno. “Birra?”
“Tè freddo”. Sorrise lui imbarazzato. “Da quando sono tornato al lavoro non bevo”.
“E come va?”
“Non male”, ammise. “Ultimamente non ho svolto nessun incarico sul campo, mi prendo cura di Sara e mi rimetto in forma”.
“Stavo per dirlo, si vede che hai perso peso. Stai molto meglio di… “
Dell'ultima volta in cui ti ho visto, stava per dire Maya, ma si interruppe, perché non voleva rievocare il ricordo di quella visita, quando aveva portato Greg a casa, si era arrabbiata, aveva perso il controllo, aveva abbandonato Greg lì e aveva detto a suo padre che non avrebbe mai più voluto vederlo.
“Grazie”, disse lui in fretta, chiaramente pensando lo stesso. “E la scuola sta andando bene?”
Gliel'aveva già detto così prima, a cena, ma sembrava che non le credesse del tutto, e Maya ricordò a sé stessa che parte del suo lavoro era la capacità di capire le persone. Era inutile mentirgli, ma ciò non significava che lei dovesse dirgli tutto.
“Preferisco non parlare della scuola”, gli disse chiaramente. Non voleva parlare di come talvolta sparissero degli oggetti dal suo armadietto. O del fatto che i ragazzi le gridassero parole poco gentili. O della