Название | Operazione Presidente |
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Автор произведения | Джек Марс |
Жанр | Триллеры |
Серия | |
Издательство | Триллеры |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9781094311425 |
“Allora che cosa vuoi che faccia?”
“Sta’ vicino. Vivi nella residenza della Casa Bianca per il momento. Possiamo darti un titolo ufficiale – guardia del corpo personale. Stratega dell’intelligence. È un po’ strano, ma non importa. Chuck Berg è ancora a capo del distaccamento dei servizi segreti per la sicurezza della casa. Ti conosce e ti rispetta. Ci sono moltissime stanze in cui alloggiare. Se vuoi puoi avere la camera di Lincoln. Ci ha dormito qualche persona famosa. Il cantante della rock band Zero Hour e la moglie ci hanno dormito qualche settimana fa. Belle persone – lui non c’entra niente col suo personaggio sul palco. Fa molta beneficienza in Africa, finanzia sistemi di filtrazione dell’acqua e via dicendo.”
Si fermò per prendere fiato prima di continuare. “Ovviamente la Casa Bianca è stata completamente ricostruita due anni fa, quindi Lincoln non ha mai dormito nella nuova camera di Lincoln, però…”
A Luke adesso parvero farneticazioni. Era come una bambina che cercava di spiegare qualcosa di importante a un adulto, senza mai dire di che cosa si trattasse.
“Vuoi una coperta di sicurezza,” le disse. “È per questo che sono qui.”
Annuì. “Sì. Ne avevo una da piccola. Era morbida e aveva cucita su la simpatica immagine di un dinosauro, che col tempo è svanita in una macchia verde. La chiamavo Copertina. Dio, mi manca.”
Adesso Luke rise proprio. La risata gli uscì come l’abbaiare improvviso di un cane. Era bello ridere. Non ricordava l’ultima volta che era successo.
“Copertina, eh?”
“Esatto. Copertina.”
C’era dell’altro che gli stava chiedendo? Non lo capiva. Diamine, la residenza della Casa Bianca? Doveva essere una promozione, dalla stanza al Marriott che gli avevano dato per la notte precedente.
“Ok,” disse. “Ci sto.”
CAPITOLO OTTO
20:26 ora della costa orientale
Sud di Canal Street
Chinatown, New York City
“Ok,” abbaiò Kyle Meiner. “Stiamo per beccarli. Quindi ascoltate!”
Kyle si accucciò nel retro di un lungo furgone nero per il trasporto merci che saltellava tra buche e solchi delle strade cittadine. Guardò i suoi uomini – otto tizi grossi, ammassati lì. Tutti là dentro erano muscolosi, tipi da palestra. Non c’era un uomo lì che non riuscisse a sollevare cento chili sulla panca o centotrentacinque in squat. Tutti assumevano come minimo creatina, e alcuni ragazzi buttavano giù steroidi, l’ormone per la crescita umana, in alcuni casi roba più esotica – quelli erano i seri. Ciascuno di loro aveva un taglio a spazzola o la testa rasata.
Il corpo di Kyle era come il loro, solo più grosso, se possibile. Aveva braccia come pitoni, gambe come tronchi d’albero. Le vene gli emergevano dai bicipiti, lungo il collo, la fronte, il petto, ovunque. A Kyle le vene piacevano.
Vene voleva dire flusso sanguigno. Vene voleva dire potere.
C’erano altri cinque furgoni come quello nel convoglio, e ciò diceva a Kyle che stavano per seminare quaranta o cinquanta pragmatici attivisti irriducibili per le strade. Aderenti t-shirt a manica lunga strette su petti e torsi – ciascuna maglietta nera con le parole TEMPESTA IMMINENTE in bianco. Le lettere sembravano vagamente ossa umane, e avevano schizzi di quello che pareva sangue rosso brillante lungo il fondo.
Occhi severi restituirono lo sguardo di Kyle. Quegli uomini erano la punta affilata della lancia.
“Non voglio vedere armi là fuori,” disse Kyle. “Nessun coltello, nessuna mazza, Dio vi aiuti se vedo una pistola. Tirapugni. Se avete addosso qualcosa, lasciatela nel furgone. Intesi?”
Qualcuno brontolò e borbottò.
“Come? Non vi sento.”
I brontolii stavolta furono più forti.
“Questo è un raduno e una manifestazione, ragazzi. Non un combattimento da strada. Se i musi gialli tirano su un combattimento, ok. Difendete voi stessi e gli altri. Lanciate pure qualche comunista contro un muro di mattoni, per quel che mi riguarda. Sappiate solo che quando arriva la polizia e vi trova armati, è reato. Abbiamo avvocati in chiamata rapida, pronti a partire, ma se vi fate beccare per possesso di armi, stasera non ne uscite, e forse non ne uscirete a lungo. Devo sentirvi su questo punto. Non voglio vedere nessuno al fresco. È un male per voi, ed è una cattiva pubblicità per l’organizzazione. Intesi? Dai!”
“Intesi!” urlò qualcuno.
“Yo!”
“Abbiamo capito, bello.”
Kyle sorrise. “Bene. E adesso andiamo a spaccare qualche culo.”
I cartelli erano impilati nel retro. La maggior parte diceva L’America è nostra! Uno diceva I gialli a casa loro! Quello era il cartello di Kyle. Se quegli uomini erano la lama affilata, lui era la goccia di veleno sulla punta.
Aveva ventinove anni, ed era un organizzatore della Tempesta Imminente da poco più di due. Era il lavoro dei suoi sogni. Dove aveva trovato le reclute? In sala pesi, quasi esclusivamente. Gold’s Gym. Planet Fitness. YMCA. Posti in cui grossi e forti uomini passavano il tempo, uomini che ne avevano abbastanza. Della censura. Del pensiero della polizia. Dei lavori buoni che finivano oltreoceano. Della mescolanza razziale.
Della religione di multiculturalismo che veniva loro imposta.
Se qualcuno cinque anni prima avesse detto a Kyle che avrebbe raccolto gruppi di uomini – i migliori, i più duri, i più aggressivi giovani bianchi che riuscisse a trovare – e che avrebbero infuso la paura del Signore nelle persone che stavano trascinando giù quel paese… che avrebbero riportato l’America alla grandezza… e che lui sarebbe stato pagato per farlo? Be’, Kyle avrebbe detto che quel qualcuno era un idiota.
Però, eccolo qui.
Ed ecco i suoi ragazzi.
E il loro era un uomo che era stato appena eletto presidente degli Stati Uniti.
Non c’era che la luce del giorno davanti, e avrebbero fatto molta, moltissima strada. E chiunque si fosse parato davanti a loro, che avesse cercato di fermarli o anche solo di rallentarli – chiunque del genere sarebbe stato falciato. Così stavano le cose.
Le portiere posteriori del furgone si aprirono, e i ragazzi saltarono giù afferrando i cartelli. Kyle fu l’ultimo. Uscì in strada, la notte che pareva risplendere attorno a lui. Fuori faceva freddo – nevicava anche un po’ – ma Kyle era troppo esaltato per sentirlo. La strada era stretta, con caseggiati di quattro piani ad affollarla su ciascun lato. Tutti i cartelli al neon delle vetrine erano in cinese, grovigli di assurdità incomprensibili – impossibili da leggere, impossibili da capire.
Era ancora America, quella? Certo che sì. E la gente qui parlava inglese.
I furgoni parcheggiarono in fila. Ovunque grossi uomini bianchissimi in maglie nere, una massa che rimbalzava e si contorceva. Erano una forza d’invasione, come vichinghi in un raid costiero. Brandivano i cartelli come asce d’armi. Il sangue correva rapido.
Una folla di minuscoli asiatici sgomenti guardava con… cosa?
Shock? Orrore? Paura?
Oh sì, tutte quante.
Cominciò il primo slogan, un po’ mansueto per i gusti di Kyle, ma per cominciare andava bene.
“L’America… è nostra!”
I ragazzi trovarono la loro voce e il volume salì di una tacca.
“L’AMERICA… È NOSTRA!”
Kyle fletté le braccia. Fletté la parte superiore della schiena, e le spalle