Название | Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3 |
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Автор произведения | Джек Марс |
Жанр | Триллеры |
Серия | |
Издательство | Триллеры |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9781094305660 |
Poi, all’età di settantaquattro anni, si era ritrovato all’improvviso presidente degli Stati Uniti. Era un ruolo che non aveva mai voluto né in cui si era mai visto. No, non esattamente. Non era vero. Da giovane, quando ancora era adolescente e nei suoi vent’anni, si era immaginato presidente.
Ma l’America che aveva sognato di governare non era quella attuale. Quell’America era un luogo diviso, invischiato in due conflitti all’estero pubblicamente riconosciuti, oltre che in una mezza dozzina di ‘operazioni segrete’ clandestine, tanto segrete che a quanto pareva persino le persone al loro comando esitavano a discuterne con i superiori.
“Signor presidente?”
Da giovane, non si era mai immaginato presidente di un’America ancora completamente dipendente dai combustibili fossili per il proprio fabbisogno energetico, in cui il venti percento della popolazione viveva nella povertà e un altro trenta percento ci andava pericolosamente vicino. Un’America dove milioni di bambini soffrivano la fame ogni giorno, e più di un milione di persone non aveva un posto in cui dormire. Un luogo dove il razzismo continuava a prosperare. Dove milioni di cittadini non potevano permettersi di ammalarsi, e spesso dovevano scegliere tra comprare un farmaco o il cibo. Non era quella l’America che aveva sognato di governare.
Quella era una sua versione da incubo, e tutto a un tratto lui ne era diventato il responsabile. Aveva passato tutta la vita a lottare per ciò che aveva creduto giusto, a combattere per i più alti ideali, ora si ritrovava invischiato nella melma. Quel lavoro comportava solo compromessi e sfumature di grigio, e Clement Dixon c’era finito in mezzo.
Era sempre stato un uomo credente. Di quei tempi si era ritrovato a pensare a come Gesù avesse chiesto a Dio di allontanare da lui il calice. Ma a differenza Sua, il destino di Dixon non era mai di finire sulla croce. C’era finito in seguito a una lunga catena di contrattempi e pessime decisioni.
Se il presidente David Barrett, un buon uomo che Dixon aveva conosciuto per anni, non fosse stato assassinato, nessuno avrebbe pensato di eleggere al suo posto il vice presidente Mark Baylor.
E se Baylor non fosse stato implicato da una montagna di prove circostanziali nell’omicidio di Barrett (non tante da incriminarlo, ma più che abbastanza per disonorarlo e costringerlo a ritirarsi a vita privata), non si sarebbe dimesso, lasciando la presidenza in mano al presidente della Camera dei Rappresentanti.
E se il mese prima Dixon non avesse accettato di rimanere alla Camera per un altro mandato, nonostante la sua età avanzata…
Allora non si sarebbe ritrovato in quella posizione.
Se solo avesse avuto la forza di volontà per rifiutare tutta quella faccenda… Solo perché la linea di successione prevedeva che il presidente della Camera si assumesse il compito, non significava che fosse costretto ad accettarlo. Ma moltissime persone avevano lottato a lungo perché Clement Dixon, portabandiera dei classici ideali liberali, diventasse presidente. Non aveva potuto voltar loro le spalle.
Quindi eccolo lì, stanco, vecchio e claudicante nei corridoi dell’Ala Ovest (sì, claudicante: l’attuale Presidente degli Stati Uniti soffriva di artrite a un ginocchio e aveva una pronunciata zoppia), sopraffatto dal peso dell’incarico che gli era stato affidato. Ogni momento che passava comprometteva sempre di più i suoi ideali.
“Signor presidente? Signore?”
Il presidente Dixon era seduto nella Situation Room. Per qualche motivo, quella sala di forma ovale gli ricordava una serie televisiva degli anni ’60, una trasmissione intitolata Space: 1999. Era la visione ridicola del futuro di un produttore di Hollywood. Severa, vuota, inumana, e progettata per massimizzare gli spazi. Era elegante e sterile, e non emanava alcun fascino.
Grandi monitor erano incassati nelle pareti, con un enorme schermo all’estremità del tavolo oblungo. Le sedie erano alte poltrone di pelle simile a quella su cui si sarebbe seduto il capitano di una nave spaziale.
Quella riunione era stata convocata con pochissimo preavviso. Come al solito, era in corso una crisi. Escludendo le sedie attorno al tavolo, tutte occupate, e qualche posto vicino alle pareti, la stanza era quasi vuota. C’erano i soliti sospetti: alcuni uomini in sovrappeso in giacca e cravatta, e diversi militari in uniforme snelli e dritti come un fuso.
Era presente anche Thomas Hayes, il nuovo vice presidente di Dixon, e lui ringraziava ogni giorno il Cielo per la sua esistenza. Avendo assunto la carica subito dopo essere stato il governatore della Pennsylvania, Thomas era abituato a prendere decisioni esecutive. Oltretutto lui e Dixon concordavano su molti argomenti. Insieme potevano formare un fronte unito.
Tutti sapevano che Thomas Hayes aveva delle mire sulla presidenza, e andava bene così. Poteva anche prendersela, per quel che riguardava Clement Dixon. Il suo vice presidente era alto, affascinante e intelligente, e trasmetteva un senso di autorità. E tuttavia la cosa più prominente in lui era il suo grosso naso. La stampa nazionale aveva già iniziato a prenderlo in giro.
Aspetta, Thomas, pensò Dixon. Aspetta solo di diventare presidente. I vignettisti politici disegnavano l’attuale capo di stato come un professore distratto, a metà tra Mark Twain e Albert Einstein, con la loro aria trasandata ma senza il semplice senso dell’umorismo e l’intelligenza penetrante che li contraddistingueva.
Se la sarebbero spassata con il grosso naso di Thomas.
All’estremità opposta del tavolo si trovava un uomo alto in uniforme verde militare, un generale a quattro stelle di nome Richard Stark. Era magro e in gran forma, come il maratoneta che di sicuro era, e aveva un viso che sembrava scolpito nella pietra. I suoi occhi erano quelli di un cacciatore, un leone oppure un falco. Parlava con assoluta certezza. Dava l’impressione di essere matematicamente sicuro di ogni sua opinione e delle informazioni riportate dai suoi sottoposti. Non aveva il benché minimi dubbio nella capacità dell’esercito americano di risolvere con la violenza qualsiasi problema, a prescindere da quanto fosse spinoso o complicato. Stark era praticamente una caricatura di se stesso. Sembrava che non avesse mai avuto un momento di incertezza nella sua vita. Come si diceva?
Spesso errato, mai nel dubbio.
“Me lo spieghi di nuovo,” gli domandò.
Riuscì quasi a percepire i gemiti silenziosi nella sala. Anche lui detestava doverselo far spiegare di nuovo. Odiava quello che aveva recepito, e non gli piaceva essere costretto a scenderci a patti. Non avrebbe voluto farlo.
Stark annuì. “Sissignore.”
Usando un lungo puntatore di legno il generale indicò una mappa sul grande schermo. La mappa mostrava la regione del North Slope in Alaska, un ampio territorio che si estendeva a nord dello stato, all’interno del circolo polare artico e confinante con il Mar Glaciale Artico.
C’era un puntino rosso nell’oceano appena a nord della costa. La zona era segnalata con il nome di ANWR, che Dixon sapeva stare per Arctic National Wildlife Refuge. Lui era stato uno degli attivisti che avevano lottato per decenni perché quell’importante regione fosse difesa dalle esplorazioni petrolifere e dalle trivellazioni.
Il generale ricominciò:
“La piattaforma petrolifera Martin Frobisher, di proprietà dell’Innovate Natural Resources, si trova qui, nell’oceano a dieci chilometri nord dell’Arctic Wildlife Refuge. Non abbiamo il conteggio esatto degli uomini presenti sulla piattaforma al momento dell’attacco, ma sappiamo che in qualsiasi momento all’incirca novanta uomini vivono e lavorano nello stabilimento e nella piccola isola artificiale che lo circonda. La piattaforma è attiva ventiquattro ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno, anche nelle condizioni atmosferiche più severe.”
Si interruppe e fissò Dixon.
Il presidente fece un movimento circolare con una mano.
“Ho capito. La prego, continui.”
L’altro annuì. “Poco più di trenta minuti fa, un gruppo