Название | L’ira Dei Vilipesi |
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Автор произведения | Guido Pagliarino |
Жанр | Книги о войне |
Серия | |
Издательство | Книги о войне |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9788873047018 |
Tanto Domenico Soprano quanto Walter Scholl avevano fatto male i conti. Poiché centocinquanta persone soltanto s'erano presentate ai germanici entro il termine stabilito dal bando, gli stessi, nel corso del pomeriggio di domenica 26 settembre e delle prime ore notturne, avevano preso a rastrellare selvaggiamente Napoli radunando 8000 inermi cittadini, anche uomini attempati e ragazzi tredicenni. I tedeschi avevano fatto scoccare la scintilla della ribellione accendendo gli animi dei famigliari e parenti dei rastrellati, smaniosi di liberarli. La mattina presto di lunedì 27 settembre câerano stati i primi scontri, avviati non solo da militari italiani rimasti fin ad allora nascosti nei sotterranei del liceo Sannazaro e in case private, ma pure da un certo numero di civili, anche se la vera e propria sollevazione popolare di Napoli sarebbe esplosa il giorno seguente, con un dilagare per le strade e le piazze di frotte di partenopei armati dâogni classe sociale, dagli ultra popolani agli intellettuali, presenti anche ragazzini dodicenni e giovani donne.In quegli anni in Italia ci si dava del voi e non del lei come oggidì. Il lei era stato vietato dal fascismo fin dalla metà degli anni â30 del XX secolo, essendo stato giudicato un pronome allocutivo di origine spagnola e non italiana - in realtà era usato sicuramente, quanto meno verso i potenti, già nel XV secolo, anche se tal uso sâera generalizzato solo dal XVI in poi, effettivamente per influsso dello spagnolo -; per di più lâuso del lei era stato vietato, non comprendendo evidentemente il ridicolo dellâosservazione, perché considerato non degno della virilità fascista essendo pronome allocutivo di genere femminile.
Da sempre peraltro i napoletani si erano dati del voi, sia nel loro dialetto, sia traslando in italiano.
Capitolo 3
Il giovane vice commissario giustiziere di tedeschi e incaricato dâinquisire lâuomo in salopette era un ventiquattrenne, napoletano di nascita e per discendenza materna. Portava fitti capelli neri naturalmente ricci, tenuti corti alla militare secondo il regolamento di quegli anni. Era di non di alta statura, un metro e sessantacinque, ma ben proporzionato e robusto. Sâera laureato in giurisprudenza alla Federico II di Napoli con lode e dignità di stampa e, se di mente era brillante, dâanimo era pulito, formato in famiglia e in collegio secondo classici principi etici, in sostanza i precetti dei 10 comandamenti giudeocristiani. A causa però della verde età , che poche disillusioni gli aveva fatto soffrire per il momento, Vittorio DâAiazzo era un poco immodesto. Abitava col papà , Amilcare DâAiazzo tenente colonnello dei Regi Carabinieri, e con la mamma, signora Luigia-Antonia diplomata maestra elementare ma casalinga, nel loro appartamento di proprietà , non situato in zona prestigiosa come sarebbe piaciuto alla famiglia, per esempio non in via Caracciolo o sulla Riviera di Chiaia, ma nel popolare rione Sanità , in via San Gregorio Armeno su cui sâaffacciavano abitazioni alla portata dei non pingui stipendi, in quell'epoca, e dei non eccelsi risparmi dâun ufficiale superiore dellâArma Benemerita. Al momento Vittorio viveva da solo nellâalloggio, a parte una donna a mezzo servizio, ché la mamma era sfollata in campagna allâinizio della guerra e il padre, da un paio di settimane, aveva passato le linee nottetempo, benché sessantunenne, quindici anni più della consorte, per non restare, di fatto, agli ordini dei tedeschi occupanti e per raggiungere il proprio sovrano. Aveva fin a quel momento prestato servizio nel 7° Gruppo Provinciale Carabinieri di Napoli, quale capo della Sezione Coordinamento Investigativo Provinciale. I coniugi DâAiazzo avevano due figli maschi. Mentre erano orgogliosi di Vittorio, non potevano stimare lâaltro, Emanuele, che fin da bambino era stato un indolente: dopo bocciature diverse, preso il diplomino delle elementari soltanto a quattordici anni e col minimo dei voti, aveva abbandonato i non sudati studi allâinizio del primo anno della scuola complementare per l'avviamento al lavoro, cui il padre sâera rassegnato a iscriverlo perché, a differenza del ginnasio10 , non prevedeva un esame dâammissione. Sedicenne, era scappato da casa, senza poter essere rintracciato dalla forza pubblica, dando notizie di sé solo dopo anni, una volta maggiorenne11 , con unâunica cartolina illustrata, indirizzata alla mamma, spedita dalla Svizzera nel maggio 1940, con poche parole di saluto. Non essendosi Emanuele presentato alla visita di leva, era stato considerato renitente e condannato in contumacia alla prigione dal Tribunale Militare di Napoli; e scoppiata la guerra, era stato considerato disertore. Il tenente colonnello DâAiazzo aveva avuto un danno dâimmagine da quel figlio e temeva che, a causa sua, non sarebbe più salito di grado, nonostante gli ampi meriti personali. Di più Vittorio, per le colpe del fratello, non aveva potuto seguire le orme paterne ed entrare nellâArma, come avrebbero voluto tanto lui che i genitori; a quei tempi infatti, non solo i personalmente disonesti, ma anche coloro che avevano ascendenti o parenti non assolutamente specchiati non potevano presentare domanda per la Benemerita. Amareggiato ma non rassegnato del tutto, Vittorio sâera laureato e aveva partecipato al concorso per vice commissario nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, ente che richiedeva solo lâintegrità personale dellâaspirante e non pure dei dei suoi congiunti. Aveva superato brillantemente la prova e, al termine della successiva scuola di specializzazione professionale, era risultato il primo in classifica, con buone speranze, dunque, dâessere esaudito nella scelta della destinazione, la sua Napoli; e proprio nella domestica città era stato assegnato.
Dopo aver letto il breve rapporto del maresciallo Branduardi, il vice commissario DâAiazzo s'era diretto alle camere di sicurezza, al piano terra, e vi aveva osservato la figura del sedicente Gennaro Esposito. Era sceso quindi nellâumido archivio sotterraneo e vi aveva controllato se qualcuno con quei dati anagrafici risultasse schedato e se le sue foto, di fronte e di profilo, corrispondessero alla fisionomia del prigioniero. Aveva trovato diverse cartelle segnaletiche con gli stessi nome e cognome, ma tutte riguardanti persone di lineamenti differenti da quelli del presunto assassino. Tornato nel proprio ufficio, sâera fatto condurre il fermato.
Lâaveva inquisito con lâaiuto del proprio assistente brigadiere Marino Bordin che, seduto al proprio tavolino, aveva battuto le domande del superiore e le risposte dellâinterrogato sulla macchina per scrivere dellâufficio, unâobsoleta Olivetti M1 nera modello 1911.
Il Bordin era un veneziano biondo robusto, alto un metro e ottanta. Quarantacinquenne, serviva in Pubblica Sicurezza da un quarto di secolo e aveva moglie e due bambini, che aveva sfollati in una casa colonica nella campagna napoletana, sacrificando allâagricoltore ospitante i due terzi del proprio stipendio e rassegnandosi, col rimanente, a mangiare e dormire in caserma.
Per ore lâindagato, senza demordere, aveva detto e ripetuto, in un corretto idioma che faceva pensare avesse frequentato almeno le classi elementari, assai severe a quel tempo, dâessere un cuoco disoccupato, dâabitare, così comâera scritto sulla sua patente, in vicolo Santa Luciella e che stava rientrando a casa quando aveva visto la porta di casa della morta accostata e aveva udito gemiti provenire dallâinterno: per mero altruismo