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guidatore di cotillons nelle feste, gran mastro di campo in tutte le giostre, socio nato di tutti i clubs che Dio misericordioso permette, di tutte le brigate "sportive" che sanno architettare e favorire le donne, queste graziose emulatrici della onnipotenza divina. Severo nel vestire, inappuntabile, inimitabile, impareggiabile, come lo ha battezzato la signorina Wilson; angoloso, bislungo e magro, ma adatto come un attaccapanni a tutte le mode; parco di parole e di gesti; un po' can barbone all'aspetto. Ha intera la barba, di fatti, ma rada, corta intorno alle guance, solamente più lunga e appuntata alla spagnuola sul mento; barba nera, aggiungo, che dà risalto ai denti bianchissimi, spesso e volentieri in mostra, come quelli di Buci. Anch'egli ha questo modo di ridere, a denti stretti, senza sonorità, senza spruzzi, manco male; e di ciò gli va data gran lode.

      Mi fanno tutti di gran cortesie, non c'è che dire. La signora Berti e la signora Wilson, due mamme, mi prendono in mezzo, dopo che tutti gli altri mi hanno salutato; il commendator Matteini, con benevolenza tranquilla di capo d'ufficio in vacanza; Terenzio Spazzòli con gravità contegnosa, che potrebb'essere timidezza ed è forse degnazione; i tre satelliti della contessa Quarneri con pronta ed eguale affabilità, dopo che l'astro luminoso m'ha involto benignamente in un effluvio di pelle di Spagna, in una musica di paroline soavi, in un barbaglio di raggi e di sorrisi. Bravi, ragazzi; così va bene, senza dissonanze tra voi e senza sospetti per me. Ma dove mi sono imbarcato! Non vedo neanche il mio Buci, buon amico personale, e diciamo pure politico.

      –Gliel'avevo fatto sperare;—trovò modo di dirmi la signorina Wilson, che pareva indovinare la causa della mia tristezza.—Ma il suo padrone è venuto iersera a ridomandarlo. Povero cane! non voleva spiccarsi da noi, temendo forse di buscarle. Ho ottenuto dal suo padrone che non lo bastonasse; quanto a lui, l'ho fatto andar più contento, promettendogli tutti gli avanzi della grande giornata.—

      Gli avanzi promettono d'esser vistosi, perchè gli apparecchi son molti. C'è tutta una batteria di ceste, di canestri, di sporte, a cui bastano appena due muli e un somarello, fissati da Terenzio Spazzòli, nostro duca e signore. Come sempre avviene, l'asino è il più carico; del che non si duole. Con quei suoi passi corti e veloci, mossi a contrattempo, va sempre avanti a tutti, povero ciuco, e le sue grandi orecchie tese danno il buon esempio ai membruti compagni. Saltellano intanto le some; si sentono tintinnire le latte delle conserve, acciottolar le stoviglie, sgrigiolare gl'involti del pane, delle carni arrostite, lesse, salate. Fortuna che le bottiglie sono diligentemente impagliate, e i fiaschi bene affondati in grandi ceste di fieno. C'è un canestro che Terenzio Spazzòli ha fatto caricare con maggior cura; e non si sa che cosa ci sia dentro, e tutti muoiono dal desiderio di saperlo; ma l'inflessibile condottiero non si lascia smuovere da domande nè da supplicazioni; mostra i denti con una autorità inesorabile. Non vuole nemmeno che si parli di un altro carico misterioso, che dovrebb'essere la sua improvvisata più grande. È il più voluminoso, di fatti.

      La mia mazza babilonese, tagliata in un ramo diritto di nocciuolo, ha destata la maraviglia delle signore. Ho dovuto spiegare perchè sia così lunga, e la signora Berti se n'è sbigottita. Ci son dunque molte serpi, in montagna? No, su per giù quante ce ne sono in pianura, e inoffensive, se mai, cioè non velenose; ma bisogna potersi guardare, e in questi casi un bastone lungo, pieghevole e rustico, val sempre meglio d'una corta e pulita mazza cittadinesca. Terenzio Spazzòli mi ha dato ragione, osservando giudiziosamente che male servirebbe in questi luoghi l'alpenstock, tanto di moda oggidì, ed anche fatto di bambù; vero arnese di parata, che nei passi difficili serve poco a sostenere, e nei brutti incontri, dovendo assestare due o tre colpi, si spezza, o alla men trista si sciupa; mentre un buon bastone egualmente lungo, di nocciuolo o di fràssino, sarebbe in ogni caso il più adatto.

      Abiti convenienti per una gita in montagna sono stati messi fuori dalla contessa Quarneri, dalle signorine Berti e dalle due Wilson, madre e figliuola: cappellini semplici, senza sfoggio di nastri e di pennacchi, giacche alla marinara e gonne corte, che lasciano vedere i borzacchini di pelle chiara, allacciati sopra la noce del piede. Anche gli uomini tiroleggiano (concediamoci il gaudio d'un verbo nuovo), col fondo dei calzoni chiuso dentro le ghette, o dentro il collo delle scarpe da caccia; le giacche di panno bigio, tagliate a camiciotto e la cintura cucita addosso, per accoglierle in artistiche piegoline attorno alla vita. Il commendator Matteini è un poema; ha perfino la penna di pavone e il fiore stellato dell'edelweiss sulla testiera del suo cappello verde.

      Nella prima ora del nostro viaggio eravamo tutti uniti in un solo drappello. A poco a poco, salendo la strada a ritroso del fiume, ci troviamo divisi in manipoli, secondo che hanno portato i capricci della conversazione, gli umori diversi e la maggiore o minore sveltezza delle gambe. Senza volerlo, io sono rimasto degli ultimi, colla Berti madre, che è la mia conoscenza più vecchia, e rappresenta del resto il maggior volume della brigata. La buona signora mi parla con arguta sincerità dei suoi ottantanove chilogrammi di peso, che non sono sempre piacevoli a portare: ma si consola pensando che erano già stati novantaquattro; ond'ella si è già liberata di cinque, e più spera di lasciarne in istrada, facendo continuamente del moto. Iddio l'esaudisca; ma per intanto ella viene ultima da per tutto.

      E si sale ancora, si sale sempre su per la valle lunga; traversando paeselli e casolari; prendendo alcuni, un po' per chiasso, un po' per comodità, l'aiuto dei carri di contadini che si combinano per via; riunendosi qualche volta i manipoli sparsi, e separandosi da capo; ridendo tutti, chiacchierando, vociando, ammirando qua e là, facendo le maraviglie d'ogni più piccola cosa, e giurando che mai e poi mai si è fatta una più bella scampagnata. Così abbiamo passato l'ultimo ceppo di case, un mulino e una ferriera, dove la valle si fa più stretta e più fosca, e la via diventa un sentiero, tra macchie di ontàni, di querci e di fràssini, tra ciuffi d'eriche, di felci, di rovi, tra rumori continui di acque zampillanti, sussurranti, gorgoglianti d'ogni parte. La natura è qui d'una bellezza orrida, che piace assai, come tutti i contrasti. Il fiume, più ristretto d'alveo, si fa anche più capriccioso. Spesso il suo letto è quasi interamente attraversato da grossi petroni, impedito da balze e scogliere, ingombrato da massi tondeggianti come palle di bombarde spettacolose, non mai più viste, non mai più fabbricate. La signorina Wilson vuol sapere perchè quei massi rotondi, rugosi, di color rossastro si trovino là. Pietre cadute dai monti, risponde il commendator Matteini. Passi pei petroni, pei lastroni, per le falde e i macigni di calcare, che si vedono qua e là lungo il cammino, ancor male arrotondati dalle acque e dagli attriti del viaggio; ma quei massi tondeggianti appariscono più compatti e più antichi; son di granito, o di quarzo; centinaia di secoli li han visti così, e non sempre a quel posto. Io qui metto fuori la teorica dei massi erratici, lavorati e trasportati dagli immensi ghiacciai dell'epoca terziaria. Ciò mi solleva di qualche cubito nell'estimazione dei miei uditori; ci divento il geologo, lo scienziato della spedizione. A buon patto, non è vero? Ma io non ne abuso, e mi chiudo tosto in un prudente riserbo. Troppo vorrebbero saper ora da me le graziose signore, specie in materia di botanica, e più che io non mi ricordi d'averne imparato a pezzi e bocconi.

      Seguendo i capricci del sentiero, si passa l'acqua almeno una dozzina di volte; si beve a tutti gli zampilli delle balze circostanti; si assaggiano tutti i frutti che offre la macchia. Abbondano le bagole, piccoli chicchi d'uva nera, che nascono dai ramicelli d'una specie di mirto, tanto graditi nell'autunno agli uccelli di passo; si trovano perfino le nespole selvatiche, piccine, ma più fresche al palato e più gustose delle domestiche. La signorina Wilson fruga per tutte le siepi, e ad ogni frutto che vede, domanda a me se può metterci il dente. "Mangi pure, signorina; queste bacche dal colore dell'indaco son le prune selvatiche, le madri delle nostre susine; asprigne, ma di gusto piacevole. Non ne abusi, per altro; si attacchi piuttosto alle fragole montanine, ai lamponi." Così ragionando, assaggiando di qua e di là il pasto degli uccelli, si sale, si sale ancora, fino al borro dove ha le sue sorgenti il fiume, diventato una cosa da nulla, e donde, chiuso il cammino dalla gran parete del monte, bisogna inerpicarsi da un lato sulla ripida costiera, per un sentiero a sghembi, che a vederlo di lì si direbbe un passo da capre. Ma ardito ci si arrampica il ciuco, e lo seguono i muli; ci arrampichiamo allegramente anche noi. La signora Berti è rimasta più ultima che mai; la regge e governa un fiero alpinista, il commendator Matteini. La contessa Quarneri ci ha i suoi tre satelliti; la segretaria comunale, la signora Wilson e le tre Berti, carine adolescenti, obbediscono ai cenni di Terenzio Spazzòli, sempre severo in ogni cosa che faccia, sempre sicuro di sè. I ragazzi trottano come puledri, ficcandosi tra i piedi dei grandi, inciampando, ruzzolando, saltellando e facendo