La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio

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Название La notte del Commendatore
Автор произведения Barrili Anton Giulio
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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disdetta! Mai dai miei giorni non ho veduto bello il mondo come ora, ora che la esperienza m'aiuta e m'insegnerebbe anco ad assaporare lentamente tutte le gioie della vita.

      «Bei ritrovi, accortamente sfiorati, fino a tanto non ci si rinvenga ciò che il cuore desidera, o che la mente ha sognato! Liete corse all'aperto, dove i polmoni e lo spirito si pigliano la parte loro Mondo ampio da veder tutto, prima di morire, come si vede tutta una casa, prima di andarsene! Imperocchè, l'uomo non è mica fatto per vivere come la quercia o come l'ontàno, abbarbicato su di una balza, donde invano il desiderio cerchi di trascinarlo per la curva del muto orizzonte, o radicato in una forra, donde non veda e non isperi più nulla. Vivere bisogna, ed ogni creatura ha da vivere secondo l'indole sua. L'uomo è nato viatore, curioso, insaziabile; egli ha da muoversi, da respirare liberamente, da rinnovare ogni tanto la sua porzione d'aria, di felicità, di luce, di scienza e d'amore.

      «Muoversi, sentire in noi vivi e gagliardi gli affetti, questi benefici flagelli del sangue, desiderare, sperare, anelare, raggiungere, ottenere: è questo il vivere; tutto il resto è apparenza di vita, sogno stracco, lenta agonia. E sono vecchio, ecco qua, confinato in questa camera da un malanno che sordamente mi rode. Perchè, non c'è mica da illudersi. La palla che deve uccidermi è fusa; io so di che male andrò al peggio».—

      Il signor Commendatore, da quell'uomo savio che egli era, non ingannava il suo spirito colle lusinghe dei medici pietosi. Ci aveva poi una certa propensione alla malinconia, effetto del male e cagione a sua volta di abbattimento, che faceva il restante.

      Amici, ne aveva sempre avuti pochi. Giovane, era venuto su con istinti da vecchio, e tra per la naturale ritrosia e per la diffidenza che ognuno impara a sue spese e in poche lezioni, non si era buttato a troppi. Dopo tutto, ama poco una metà del genere umano chi ama molto l'altra metà, e non accade dir altro. Per contro, i pochi amici che aveva avuti, li aveva anche molto amati. Ma pur troppo, i men buoni si erano col tempo allontanati da lui; i migliori, come al solito, ad un per uno se li aveva pigliati la morte. E il signor Commendatore non aveva pensato a rinnovar le provviste.

      Un giorno, era stato parecchi anni addietro, anche una certa marchesa era morta. E il signor Commendatore non aveva più saputo dove e come passar la sera. Va detto anche ad onor suo che il rammarico era stato profondo, e lungo eziandio quel lutto che un uomo può fare dicevolmente ad una persona cara, ma non istretta a lui da vincoli di parentela. Avrebbe voluto viaggiare, correre il mondo per sollievo dello spirito; ma quello non poteva più essere per lui uno svago. Così rimase e si crogiolò nella sua noia ineffabile.

      Aveva provato a cercar distrazioni nella musica, e preso a bella posta uno scanno a teatro; ma in quelle radunate di gente allegra, che va allo spettacolo per vedere e per essere veduta, ci si trovava come straniero. Da tanti anni aveva perso il filo di quella vita chiassosa, che ormai non ci si raccapezzava più. Tutti lo rispettavano, ma nessuno più si curava di lui. Almeno ci avesse avuto ancora il baco della politica! Ma le ambizioni lo avevano abbandonato e madonna politica non era più il suo debole. Già, a questa imperiosa signora o darglisi intieri, o nulla. E a darglisi intieri, che sugo?

      Era stato bensì eletto deputato al Parlamento per tre legislature e avrebbe avuto qualche diritto ad uno stallo in Senato. Ma egli era altresì un galantuomo, e siccome la sua coscienza gli diceva d'aver fatto troppo spesso il deputato a ore rubate, che è quanto dire poco e male, ebbe vergogna e non accettò la profferta. Bene accettò un titolo vano un po' per non aver l'aria di ricusare ogni cosa, ed anche un po', come diceva qualche volta celiando, per far dispetto a qualcuno.

      Da giovine, s'era addottorato in utroque ed aveva scritto la sua tragedia, come ogni buon cittadino italiano; poi aveva fatto come il ricco, che chiude il danaro nello scrigno e non lo cava più fuori, contentandosi di sapere che il gruzzolo c'è. Gran dottore, gran letterato, gran politico, tutto in erba, aveva sfiorato ogni cosa; in niente era andato al fondo, nemmeno nel piacere. A farla breve era mal vissuto, come tanti uomini gravi che conosco io.

      Immaginate dunque come il signor Commendatore, con tutto quel passato sulle spalle, avesse lo spirito occupato. Gli passavano davanti agli occhi i bei giorni che aveva perduti, le belle città del mondo che non aveva visitate, e via via tutte le belle cose che non aveva possedute. Anche un po' di famiglia, che non s'era procacciato, veniva collo spettacolo delle sue gioie soavi a inacerbirgli i rimorsi; vedeva il pergolato domestico, il sorriso d'una mite compagna e i vezzi d'un angiolo ricciutello, che gli tendeva le rosse manine dalla sua picciola cuna. Qui, per altro, gli soccorrevano certi suoi vecchi dirizzoni, e, messa in disparte la poesia fugace della cuna, rammentava le noie, i grattacapi del matrimonio.

      «Non ho la signora Zita per chiudermi gli occhi? È una brava donna e l'ho ricordata nel mio testamento, perchè non abbia a capitar peggio e a rompersi la testa negli ultimi giorni della sua vita. Il resto ai poveri, famiglia che, a dir la verità, non ho molto aiutata vivendo. Infatti, ho dato, quando i venti, quando i cinquanta, ma non per fare del bene al prossimo, sibbene perchè una bella signora mi pagava in amabili sorrisi il piacere che aveva di mettermi nella sua lista. Ha pagato cinquecento lire, per vanagloria, un guanto di dama, a cui non avrei fatto il sacrifizio di un'ora, per giungere alla felicità di baciarle una mano; mille lire una scatola di fiammiferi, per far dire ad una superba Giunone: peccato che il Commendatore Ariberti non sia nobile di sangue! Vanitas vanitatum et omnia vanitas! Ho fatto un monte di spese inutili, anche sapendo di farle. Al giuoco mi lasciavo guardar le carte da una sirena traditora, che profanava il pizzo di Fiandra, onore delle nostre bisavole. Nei salotti, per le vie, stringevo la mano a centinaia di sciocchi, o di tristi, e mi trattenevo su d'un angolo di strada a sentire i discorsi degli sconclusionati, per finire il giorno con loro, e come loro. Ah, il passato, il passato! Chi mi dà di cancellarlo? Chi mi dà da riviverlo altrimenti?….»

      E cento svariate forme di persone e di cose gli scorrevano davanti agli occhi, luminose ad un tempo e fugaci come immagini di sogno; selve fragranti per mille aromi preziosi, città di marmo popolate da semidei, liete frescure, laghi azzurri tra i monti, nuvoli rosei, amori, glorie, olimpiche gare e corone d'alloro, tra migliaia d'uomini e di donne festanti; e così via via tutto ciò che ha fatto bello il mondo, tutto ciò che lo farà ancora alle generazioni venture, tutto ciò che era fuggito da lui senza rimedio.

      Ah sì, senza rimedio, pur troppo! E il petto del povero Commendatore ansimava, gravido di sospiri. Quello scherno della fantasia era per lui la cosa più molesta del mondo. Certo, se non fosse stato un uomo per bene, sarebbe uscito in qualche grossa maledizione. Ma queste cosacce non erano il fatto suo; grazie al cielo, il signor Commendatore rispettava sè stesso, e se pure gli venne il momento che la rabbia traboccasse, il pensiero assunse tuttavia una veste conforme al decoro.

      –In fede mia,—esclamò egli parlando a sè stesso, che, pur di —ricominciare la vita, farei un patto col diavolo. Sì,—soggiunse —poscia, ridendo con un tal po' d'amarezza,—se l'amico ci fosse! Ma —anche questo ci ha distrutto la scienza moderna, anche questo!

      –Davvero? e chi glielo dice?—

      –Queste parole, che fecero sobbalzare il signor Commendatore nella sua nicchia, gli parve che venissero a lui da un armadio di rimpetto, anzi proprio da un'ampia spera che vi stava incastrata, riflettendo la luce raccolta della sua lucerna, e, tra questa e la penombra in cui egli stava mezzo nascosto, i capricciosi giri del fumo che mandava fuori il vaso del tè. Sbarrati gli occhi, come per guardar meglio davanti a sè, vide dall'immagine riflessa di quelle mobili spire formarsi alcun che di nuovo, indi balzar fuori d'un colpo, a guisa di pantomimo da un quadro mobile, quel famoso personaggio dal viso sarcastico e dalla svelta persona, che si dipinge vestito di rosso dal capo alle piante e con una berretta sormontata da una penna di gallo; insomma «un giovine gentiluomo» come quello veduto dal dottor Fausto di Goethe, o «un bel cavaliero» come quello veduto dal suo omonimo di Gounod.

      Qui sarebbe il caso di indagare, poichè siamo nel secolo della incredulità, se si trattasse pel signor Commendatore d'una visione drammatica o melodrammatica, letteraria o musicale. Ma siccome io credo al fatto che narro, non è mestieri di cedere a queste pretensioni degli uomini di poca fede. Dopo tutto, apparenza o realtà che fosse, fatto sta che parlarono a lungo. Ma, di grazia, rifacciamoci dalle mosse.

      –E chi glielo dice?—gridò l'inatteso ospite del signor Commendatore, con una voce impressa di malizia e di buon umore.—Io son