Название | Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12 |
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Автор произведения | Edward Gibbon |
Жанр | Зарубежная классика |
Серия | |
Издательство | Зарубежная классика |
Год выпуска | 0 |
isbn |
A. D. 1221-1228
La lunga incertezza in cui si rimase sulla sorte di Pietro, la presenza della legittima sovrana Jolande, o moglie, o vedova del medesimo, fecero che l'elezione di un nuovo Imperatore si differisse. La morte di questa principessa vissuta in mezzo ai cordogli, accadde in tempo che già sgravata erasi d'un fanciullo, cui fu imposto il nome di Baldovino, ultimo e più sfortunato dei principi latini di Costantinopoli. Comunque la sua stessa nascita fosse un motivo, per essergli affezionati ai Baroni della Romania, la fanciullezza del medesimo avrebbe lungo tempo esposto l'impero agli inconvenienti di una minorità, per lo che i diritti de' fratelli di Baldovino prevalsero. Il primogenito, Filippo di Courtenai, erede di Namur dal lato di madre, ebbe l'accorgimento di preferire la realtà del suo marchesato ad un'ombra di impero; pel quale rifiuto, Roberto, secondogenito di Pietro e di Jolande, al trono di Costantinopoli fu chiamato. Fatto circospetto dalla paterna sventura, per traverso all'Alemagna e lungo le rive del Danubio, seguì lentamente il suo cammino, e agevolatogli il passaggio per l'Ungheria dai motivi di parentado con quel Re, marito di sua sorella, pervenne finalmente alla meta, coronato dal Patriarca nella cattedrale di S. Sofia. Ma non provò durante l'intero suo regno che umiliazioni e disastri; e la colonia della Nuova Francia, così allora chiamata, cedea da tutte le bande ai collegati sforzi de' Greci di Nicea, e dell'Epiro. Dopo una vittoria più alla sua perfidia che al valore dovuta, Teodoro l'Angelo entrato nel regno di Tessalonica, e scacciatone il debole Demetrio, figlio del Marchese Bonifazio, fe' sventolare sulle mure di Andrinopoli il suo stendardo, aggiugnendo superbamente il proprio nome al novero di tre o quattro imperatori suoi emuli. Giovanni Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris, occupando il rimanente della provincia asiatica, splendè, durante un regno di trentatre anni, per tutte quelle virtù che ad un legislatore e ad un conquistatore si aspettano. Ei seppe, ottimo capitano, fare strumento di sue vittorie il valore di parecchi Franchi mercenarj, la cui diffalta, al lor paese funesta, divenne annunzio e cagione della superiorità risorgente de' Greci. Vatace costrusse una flotta, impose leggi all'Ellesponto, le isole di Lesbo e di Rodi ridusse, i Veneziani di Candia assalì, ai lenti e deboli soccorsi che ai Latini pervenivano dall'Occidente tolse la via. Indarno l'Imperatore latino fe' prova di opporre a Vatace un esercito, la cui sconfitta lasciò morti sul campo di battaglia quanti cavalieri e antichi conquistatori tuttavia rimanevano. Ma men trafiggeano l'animo dell'inetto Roberto i buoni successi del nemico che l'insolenza de' suoi sudditi latini, i quali della debolezza dell'Imperatore e dell'impero abusavano parimente. Le domestiche sciagure di questo principe dimostrano ad un tempo la ferocia del secolo e l'anarchia che quel governo premea. Sedotto Roberto dall'avvenenza di una nobile giovane della provincia di Artois, e dimentico degli accordi che la mano di lui alla figlia di Vatace obbligavano, introdusse nel palagio l'arbitra del suo cuore, inducendo la madre della donzella, abbagliata dallo splender della porpora, ad acconsentire, comunque ad un gentiluomo della Borgogna fosse promessa in isposa. L'amore del tradito pretendente in furor convertendosi, adunò i proprj amici, e rotte le porte della reggia, precipitò nell'Oceano la madre di colei che era divenuta o moglie, o concubina dell'Imperatore, e a questa barbaramente il naso e le labbra tagliò. I Baroni, anzichè voler punire il colpevole, fecero plauso ad un'azione feroce, che Roberto non potea perdonare nè come principe, nè come uomo147. Sottrattosi alla sua colpevole capitale, corse ad implorare la giustizia, o la compassione della Romana Sede Apostolica: ma il Papa lo esortò freddamente a ritornarsene nel suo regno; e nè manco gli fu lecito arrendersi a tal consiglio, perchè alla gravezza del dolore, della vergogna e della rabbia d'un impotente risentimento, i suoi giorni cedettero148.
A. D. 1228-1237
Il secolo della cavalleria è il solo tempo che abbia aperte al valore di semplici privati le vie de' troni di Gerusalemme e di Costantinopoli. La sovranità titolare di Gerusalemme apparteneva a Maria figlia di Isabella e di Corrado di Monferrato, e pronipote di Almerico, o di Amauri. Il pubblico voto, e una sentenza di Filippo Augusto, le aveano dato in isposo Giovanni di Brienne, uscito di una nobile famiglia della Sciampagna, e additato siccome il più valoroso fra i difensori di Terra Santa149. Nella quinta Crociata, condottiero di centomila Latini portatosi alla conquista dell'Egitto, terminò l'assedio di Damieta coll'impadronirsi di questa Fortezza; i disastri che succedettero a tale resa, vennero unanimamente attribuiti all'avarizia e all'orgoglio del Legato Pontifizio. Dopo aver data in isposa la propria figlia a Federico II150, l'ingratitudine dell'Imperatore lo costrinse ad accettare il comando delle truppe della Chiesa: perchè comunque avanzato negli anni e privato della sua corona, il valente e generoso Giovanni di Brienne ognor pronto mostravasi a brandire la spada, se l'utile della Cristianità lo chiedeva. Non avendo regnato che sette anni Roberto di Courtenai, il fratello di lui Baldovino non poteva essere uscito ancor dell'infanzia, e intanto i Baroni di Romania vedeano la necessità di rimettere lo scettro fra le mani d'un adulto e d'un eroe. Il nome e l'uffizio di reggente, cose non erano da offerirsi al rispettabile Re di Gerusalemme. Onde accordaronsi di conferirgli, sua vita durante, il titolo e le prerogative imperiali, sotto l'unico patto che ei concedesse la figlia sua secondogenita in moglie a Baldovino, serbato nella maggiorità degli anni a succedergli nel trono di Costantinopoli. La scelta di Giovanni di Brienne, la sua presenza e la sua fama, fecero rinascere la speranza de' Greci e de' Latini. Ammiravano il contegno guerriero151, il vigor d'un vegliardo che gli ottant'anni già oltrepassava, e la statura che dalle proporzioni ordinarie toglievasi; ma l'avarizia e l'amor della quiete a quanto appariva aveano raffreddato nel suo animo l'ardor delle imprese; lasciate sbandar le sue truppe, due anni interi in un vergognoso ozio per esso trascorsero.
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Acropolita (cap. 14) afferma che Pietro Courtenai morì di ferro (εργον μαχαιραε γενεσθαι) stravagante frase che corrisponde all'italiana,
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Marino Sanuto (
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Il Giannone (
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