Raggio di Dio: Romanzo. Barrili Anton Giulio

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Название Raggio di Dio: Romanzo
Автор произведения Barrili Anton Giulio
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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ritorniamo una seconda volta, e sia la buona, al nostro don Garcìa, che con tanta attenzione seguiva le vicende di un bellissimo giuoco. Proprio si arriva al punto che la piacevole occupazione gli era interrotta dall’avvicinarsi d’un famiglio, le cui prime parole ebbero virtù di farlo balzar subito in piedi. Molestie dell’ufficio, naturalmente; e la Guardia non poteva esser sempre gioiosa, pel suo degno custode.

      – Ci abbandonate? – gli chiese frate Alessandro, che per fortuna di giuoco veniva ad essergli più vicino, e lo vedeva muoversi di scatto dalla panca.

      – Per forza; – rispose don Garcìa. – Ed anche, diciamolo pure, con un certo piacere. Arriva il nostro Giovanni Passano. —

      La nuova si sparse fra gli altri giuocatori, e la partita fu subito interrotta, come la piacevole occupazione di don Garcìa. Il Passano aveva amici da tutt’e due le parti; e se si contentavano di piantar lì la giuocata quei che avevano il disopra, con “quaranta e la caccia„, era naturale che non si dolessero quelli che s’avviavano a perdere, non avendo che un “quindici„.

      Giovanni Passano, al suo smontar da cavallo nel cortile della Gioiosa Guardia, fu accolto a festa dai suoi vecchi compagni d’Haiti e della Giamaica.

      – Che buon vento vi porta? – gridavano a gara, stringendogli la mano. – Finalmente! Bisognerà metterci il segno per ricordo, stamparla, toccarsene un occhio. Sapete che ci mancate da un mese?

      – Eh, si fa come si può; – rispondeva il Passano, commosso da tutte quelle dimostrazioni d’amicizia. – Appena levati i piedi dagli impicci, eccomi qua. Pietro Gentile! Guglielmo! Battista! frate Alessandro, che per riverenza alla tonaca dovevo metter primo di lista!.. Quantunque, – soggiunse ridendo, al vedere tutti quei grembi e sboffi fuor dal cordone di san Francesco, – mi pare che la portiate sempre alla diavola. Giuocate al pallone, vedo. È un bel giuoco; ma non da frati.

      – Chi ve l’ha detto, messer Giovanni? Nessun testo lo proibisce; e ce n’è uno che forse li permette tutti. Ma sì. Servite Domino in laetitia; lo raccomanda il Salmista. Volete giuocare anche voi?

      – Eh! se non fossero quattr’ore che mangio polvere, e che mi fiacco le reni col cavallo più indiavolato della cristianità… A proposito, mi fareste un gran piacere ad esorcizzarlo coll’acqua santa.

      – O voi col vino di Vernazza, piuttosto.

      – Il vino di Vernazza fa bene all’uomo; – conchiuse gravemente il Passano, mentre si avviava colla brigata verso l’ingresso della seconda cinta. – Qui, infatti, ci ho un testo sacro ancor io; vinum bonum laetificat cor hominis. E il signor conte? – ripigliò, con accento mutato, parlando a don Garcìa. – E la signora contessa?

      – Benissimo; – rispose lo Spagnuolo. – E vi direi che sono là bene accostati sul medesimo ramo, come due tortore innamorate, se fosse almeno ora di giardino. Saranno invece nella caminata, lei col suo tombolo a far merletti, lui a metter del nero sul bianco.

      – Ma anche a far merletti e a scrivere si può star molto vicini, non è vero?

      – Oh questo poi sì; alla medesima tavola, per non perdersi d’occhio. Vi faccio annunziare, mentre bevete un bicchiere?

      – No, non occorre; – rispose pronto il Passano. – Non dico per il bere, intendiamoci; dico per il farmi annunziare. Non c’è premura; è una visita senza impegno, la mia. A presentarmi, ci sarà sempre tempo per la cena.

      – Ah, mi levate una spina dal cuore; – disse quell’altro, mentre lo faceva entrare nel tinello, al pianterreno della rocca. – Avrei giurato a tutta prima che veniste per portarci via il padrone. Che ci volete fare? Presentimenti; e fortuna che qualche volta ingannano! L’altro giorno, passando di qua messer Filippino, che, sia detto con la debita reverenza al casato, ha sempre la lingua un po’ amara, si lasciò sfuggire certe parole! “Che Gioiosa Guardia! diceva; che Gioiosa Guardia! Dormigliosa, dovreste chiamarla. Con Ercole che fila ai piedi di Onfale„. Io, per dirvi la verità, non conoscevo questa signora, ed ho dovuto farmi spiegare l’arcano da frate Alessandro. Ne sapeva poco più di me, quel bravo figliuolo; ma tanto da capire che si trattasse d’una donna, la quale faceva perdere il tempo al dio della forza. Il nostro conte, veramente non fila, e nemmeno la contessa; quantunque, se filasse, vi so dir io che con quelle sue dita darebbe dei punti alle fate. Ma io ho bene inteso, dopo la spiegazione di frate Alessandro, che cosa volesse dire messer Filippino. Il padrone non si occupa se non della padrona, e lascia che gli altri della casata facciano e disfacciano a modo loro le cose della Repubblica. Ma di che si lagnano, se mai? Egli tira le mani e i piedi fuori del giuoco; li lascia dunque padroni; non vi pare?

      – Giudicando alla grossa, sì; – rispose il Passano, mentre con diligenza amorosa osservava il liquido topazio delle Cinque Terre attraverso la lucida parete del bicchiere. – Ma possono aver ragione i suoi nobili parenti, a desiderare che un tal uomo non si ritiri dal giuoco. Sapete bene; dove bastano undici, il dodicesimo aiuta. —

      Don Garcìa rizzò l’orecchio a quelle parole dell’amico.

      – C’è dunque da aiutare a qualche impresa? – diss’egli.

      – No, ch’io sappia; – replicò il Passano. – Ma c’è una condizione di cose che parla abbastanza chiaro da sè. Noi del Gatto, o del Basilisco, anzi diciamo pure di tutti e due questi graziosi animali, siamo per Francia; e sta bene, tenuto conto delle buone ragioni che ci abbiamo: ma siccome tutto questo, messo in ispiccioli, significa avere un presidio straniero in città, non si può neanche sostenere alla faccia del popolo che sia la più bella cosa del mondo. D’altra parte, i popolari, cioè a dire i nostri signori d’origine popolana, chiamati altrimenti del portico di San Pietro, vorrebbero aver mani in pasta, allontanando dalla madia quei del portico di San Luca; e questi, capirete, spalleggiati come sono dal gatto e dal basilisco, antiche insegne dei Fieschi, non ci pensano neanche a ceder d’un passo. Si guardano dunque in cagnesco, e come possa andare a finire Dio solo lo sa. Speriamo, nondimeno; Dio misericordioso potrebbe appigliarsi al buon partito di accomodar la testa a tutti. Dei miracoli se ne son visti, in altri tempi: perchè non ne accadrebbe uno nel nostro? Parlo così, – soggiunse il giovanotto, – perchè conosco il padrone, chè non se ne fa nè di qua nè di là. Ma guai a parlar di pace in Violata!

      – Gian Aloise è sempre il più forte? – entrò a dire don Garcìa. – E sempre bene coi francesi?

      – E come! – rispose il Passano. – Non si muove foglia che Gian Aloise non voglia. Quasi si direbbe che in Genova sia lui il padrone, com’è il capitano generale di tutta la Riviera di Levante. Ci sono i francesi nel Castelletto. Ma quelli si possono magari considerare stipendiati, come se fossero svizzeri, o tedeschi; zuppa o pan molle.

      – Sia contento, allora, – disse don Garcìa, – e lasci quieti noi in Gioiosa Guardia, dove si sta così bene.

      – Felice mortale! L’avete trovata, la nicchia? E badate, ci verrei tanto volentieri ancor io.

      – Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà! – ripigliò don Garcìa, come per darsi sulla voce. – Non dimentichiamo che l’ha tenuta a battesimo la madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.

      – Già, – disse ridendo il Passano, – quantunque sia bruna. Tien più di Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!

      – O perchè non l’avete condotta con voi, amico Passano?

      – Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore… —

      Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.

      In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando, alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca. Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l’imagine, il simbolo, il genio della Gioiosa Guardia,