I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio

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Название I rossi e i neri, vol. 2
Автор произведения Barrili Anton Giulio
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
Год выпуска 0
isbn http://www.gutenberg.org/ebooks/29846



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via e moschettati senza misericordia. La è giustizia sommaria, nè per condannare il prigione occorrono prove. A mezzanotte il governatore Bargagli può scrivere al ministro Landucci in Firenze che «l'ordine è ristabilito» e sette ore dopo, nella mattina del 1^o luglio, il general Ferrari da Grado mandare all'eccellentissimo personaggio anzidetto un nuovo telegramma nel quale si dice: – Qui tutto è tranquillo; la popolazione va pei fatti suoi. – Tuttavia, la vittoria era costata cara al governo granducale, che non ardì contare i suoi morti.

      A Genova, siccome abbiamo già detto più volte, l'impresa doveva esser tentata nella sera del 29 di giugno. Ora, perchè in parte fallisse e in parte non giungesse nemmeno alla prova dei fatti, non diremo noi contemporanei. Certo non può dirsi che fosse sventata dalla vigilanza del governo, il quale anzi fu colto alla sprovveduta, e poteva essere sopraffatto dalla novità di un assalto notturno. Vagamente, così in di grosso, sapeva: fors'anco nella mattina era stato avvertito, e gli erano stati additati alcuni depositi d'armi; ma di sicuro non conosceva i particolari del tentativo. Se li avesse conosciuti, avrebbe saputo che ad un assalto per le vie della città doveva rispondere un assalto dei forti principali che la signoreggiavano, nei quali altro non era che uno scarso numero di soldati, tolti da uno dei quattro, e molto assottigliati reggimenti che allora presidiavano la città, insieme con un battaglione di bersaglieri. E se questo disegno non gli fosse stato ignoto, certo si sarebbe adoperato in tempo a sgominarlo, e avrebbe cansato lo scorno, che gli derivò al cospetto dell'universale, di vedersi pigliare impunemente un forte, e tentar la scalata di un altro, sul culmine della cinta fortificata di Genova.

      Se dobbiamo aggiustar fede alle testimonianze del processo che fu fatto dipoi per questa congiura, essa fallì principalmente per la scarsezza del numero. Molti a gridare dapprima; pochi ad operare nell'ora convenuta. Laonde, se nella parte alta della città, vogliam dire ai forti, fu tentata l'impresa, nella parte bassa si può asserire che v'ebbero apprestamenti, non cominciamento di lotta.

      Fu detto poscia che il segnale della pugna dovesse esser dato da un colpo di cannone, il quale accennasse al popolo congiurato essere gli uomini suoi padroni del forte Sperone. Ma se da questo evento dipendeva il cominciar della lotta, perchè non raddoppiare, triplicare il numero degli assalitori, e assicurare l'esito di quel colpo di mano? Perchè nei pressi di San Pantaleo, dov'era il nerbo degli uomini a ciò destinati, ebbero a trovarsi in quaranta, o poco più, i quali, saliti fin sotto le mura del forte, dovettero al primo allarme sbandarsi?

      Il forte Diamante, di assai minore rilievo, cadde in potere dei congiurati per un felicissimo stratagemma. Il guardarme che lo aveva in custodia, teneva fondaco di vino e amava la gente allegra. Da parecchie settimane avea preso la consuetudine di andar lassù una brigatella di buontemponi, i quali entravano nel cortile, bevevano, giuocavano alle pallottole, o ballavano al suon dell'armonica, insieme coi pochi soldati del presidio. La sera del 29 erano, o, per dire più veramente, fingevano d'essere alticci dal vino, e non avrebbero mai detto d'andarsene. Senonchè, era l'ora di chiudere, e il guardarme li condusse al cancello. Colà, fanno ressa intorno alla sentinella; intanto una mano di compagni che stavano appiattati di fuori, balzano dall'aperto ingresso nel cortile, disarmano la sentinella, intimano ai soldati la resa, in nome del governo provvisorio. Il drappello di presidio è disarmato e chiuso in un camerone; il sergente Pastrone che vuole opporsi alle forze soverchianti e gridare, è steso a terra da un colpo di pistola; i congiurati sono padroni del forte.

      Ma dallo Sperone non giunge alcun segnale; dalla città sottoposta nemmeno. Uno di loro è mandato fuori a chieder novelle; ma, sia che egli ne porti di tristi, o non torni neppure, il fatto sta che le speranze svaniscono, e sul primo romper dell'alba i vincitori abbandonano la preda e si disperdono lungo i sentieri che conducono al basso.

      Che era egli avvenuto in città? Pare che si aspettasse il segnale dallo Sperone: ma il segnale, per quelle ragioni che abbiamo già dette, non era venuto. Intanto l'autorità governativa, posta sull'avviso, aveva schierato i suoi battaglioni nelle vie principali, dintorno al palazzo Ducale, e nei pressi del Municipio. Anche la Darsena era validamente munita. Frattanto, numerosi drappelli di soldati percorrevano le strade, e carabinieri e guardie di pubblica sicurezza andavano frugando qua e là, e mettendo le ugne addosso a quanti avessero aria sospetta. Parecchi depositi d'armi e luoghi di ritrovo erano stati accennati all'autorità governativa, che fu sollecita, sebbene senza ordinatezza di concetto, a mettere i suoi segugi in moto, e per tal guisa le venne fatto di ghermire al varco moltissimi giovanotti, e poscia fucili, polvere, con altri arnesi di guerra.

      Niente era più possibile. La rivolta era soffocata sul nascere; le sue membra divise avrebbero tentato invano di ricongiungersi. Il disegno del comandante del presidio (se pure può dirsi che un vero disegno ci fosse) infelicissimo, laddove il popolo avesse potuto ingaggiar la battaglia, riusciva ottimo a dividere le forze, a togliere l'unità di comando, a sbigottire i centri particolari della rivolta.

      E ogni cosa ebbe fine. Gli uomini raccolti per menar le mani, abbandonarono i luoghi di ritrovo, e ognuno cercò di provvedere a se stesso. L'illustre agitatore, che, nel segreto di un quartierino presso la Nunziata, stava attendendo (argomentate con quale ardore febbrile) che la gente incominciasse, ebbe in quella vece il triste annunzio che tutto volgeva alla peggio. Sperò un tratto, ma invano, che le cose potessero ancora mutarsi; ma poco stante egli medesimo era costretto ad uscire dal suo nascondiglio, che poteva essere, che già forse era scoperto. E ne uscì infatti, con quella temerità tutta sua, che gli aveva già tante volte giovato nella sua vita fortunosa, andando a riparare oltre l'Acquasola, accanto al teatro Diurno, nella casa ospitale di un gentiluomo suo concittadino; dove i carabinieri andarono inutilmente due volte a cercarlo, due volte ponendo le mani sopra un letto tra le cui materasse egli era stato allogato; due volte rimovendo un monte di biancheria allora allora insaldata, mentre una giovine donna, impavida e sorridente (benedette Inglesine, non ci siete che voi per uscirne con tanta bravura), seguitava col suo ferro a stirare.

      I casi del 29 giugno del 1857 misero in chiaro un doppio errore, della rivoluzione e del governo ad un tempo; della rivoluzione, che lasciò fuggirsi il quarto d'ora della vittoria, aspettando un segnale, e si vide in rotta senza pure aver combattuto; del governo, che fu còlto all'impensata, non ebbe vera notizia del tentativo se non tardi, ed anche questa manchevole.

      Si disse dai lodatori ad ogni costo che l'autorità sapeva tutto, ma che non volle sgominare i disegni dei rivoltosi, poichè mirava a coglierli tutti quanti in una retata. Ciò non è punto da credersi, perchè la retata non diede alcun frutto. Altri (e furono di parte clericale, che allora osteggiava il governo piemontese, come quegli che non voleva essere nè carne nè pesce, nè soffocare ogni germe di rivoluzione a pro' degli altri governi italiani, nè gittarsi alle imprese più arrisicate con suo danno gravissimo), altri accusarono il governo di sapere ogni cosa, ma di aver lasciato correre, perchè i tentativi di Livorno e di Napoli, dai quali avrebbe potuto cavare un costrutto, non andassero falliti. L'invenzione fece capolino su pei diarii della sètta; ma parve più acuta che verisimile.

      Ed ora torniamo al nostro racconto. Abbiamo lasciato Lorenzo Salvani che si recava al suo posto di combattimento, sulle otto di sera, in una viottola del sentiero di Prè.

      II

      Dove si legge come andasse a finire l'impresa di Lorenzo Salvani.

      Il nostro giovinotto era stato poco dianzi dal capo della rivolta, ed aveva avuto un lungo colloquio con esso lui, tanto per indettarsi d'ogni cosa che avesse a fare, quanto per istabilire i modi più adatti a collegare l'impresa col centro dell'azione, e poterne avere, ad ogni occorrenza, consiglio od aiuto.

      Per ciò che si riguardava a lui, comandante di quella perigliosa fazione, egli doveva andarsene al suo ritrovo di Prè. Colaggiù avrebbe trovato cento uomini, con armi e munizioni giusta il bisogno, parte raccolti al pianterreno di una casa a lui già nota, parte in uno stambugio, o cantina, o stalla che fosse, di rimpetto alla casa anzidetta, donde, per la strettezza del vicolo, avrebbe potuto agevolmente, e senza pericolo, comunicare ad ogni ora, ad ogni istante, con essi.

      Questi cento uomini posti sotto il comando di Lorenzo, erano divisi in due drappelli, ad ognuno de' quali erano assegnati due uffiziali, scelti tra i più animosi e tra i più esperti dallo stesso Salvani. Il primo drappello, che doveva esser raccolto al pianterreno della casa sovraccennata, era guidato da due ottimi popolani, il Martini ed il Fresia, uno dei quali