Tra cielo e terra: Romanzo. Barrili Anton Giulio

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Название Tra cielo e terra: Romanzo
Автор произведения Barrili Anton Giulio
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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modesto, non parlava mai delle sue imprese di guerra, e, quando il suo generale vi accennava, egli cercava subito di sviare il discorso. Ma era di poco aiuto, Dio buono, anzi di nessun aiuto in una conversazione. E dovevano esserci ogni giorno alla Balma molte ore di noia.

      Anch’egli, il signor Maurizio, si sarebbe annoiato al Castèu, senza i suoi libri, senza il suo disegno di scrivere un’opera. Ah, come voleva mettersi presto al lavoro! Su presto, adunque, in ordine i libri, le carte, gli strumenti; e fatto ciò, sùbito un buon orario da imprigionarcisi dentro, come il filugello nel bozzolo. Egli ricordava benissimo a questo proposito la massima di un suo vecchio professore al collegio di Marina: «i sistemi fanno e non fanno, il metodo è tutto».

      Per dar sesto alle cose sue ci sarebbero volute ancora cinque o sei giornate di lavoro. Disgraziatamente, non erano più giornate intiere, ma mezze: alle dodici, ora del desinare, il legnaiuolo era congedato. Come fare altrimenti? Il generale era venuto con la sua signora a visitare la contessa Albertina; gran miracolo che non si ripeteva più da sei mesi. E in quella visita, il conte Matignon de la Bourdigue aveva rinnovato a Maurizio il suo avvertimento: «Siamo in casa tutti i giorni, mattina e sera, sera e mattina». Poveri colombi, sugli orli d’una tazza di latte! La vita della campagna è sana; ma chi non ci ha niente da fare, Dio misericordioso!.. Si cerca di essere in tre; quando in tre non si sente sollievo, bisogna trovar modo di essere in quattro.

      Maurizio andava dunque ogni giorno a fare il quarto a quei buoni vicini. Si giuocava molto a biliardo; si faceva anche un po’ di scherma, e qualche volta si usciva a far quattro colpi di pistola. Il generale, da vecchio ufficiale di cavalleria, era un gran sciabolatore al cospetto di Dio; con la spada reggeva appena al confronto del capitano Dutolet, ed era molto inferiore a Maurizio, gran tiratore, che si era fatto in Genova alla scuola elegante e vigorosa di Licurgo Cavalli, e che a Napoli era stato perfezionato dalla grazia corretta di Masaniello Parise. Alla pistola batteva tutti il capitano Dutolet, con quel suo modo curioso, strano, inconcepibile, di tirar diritto senza puntare. Per colpire il bersaglio a venticinque passi, Maurizio aveva bisogno di star sulla mira almeno cinque secondi. Il capitano niente; si presentava di fianco, innanzi al bersaglio, con la bocca della pistola a terra; alzava il braccio, portandolo naturalmente, automaticamente in linea, all’altezza necessaria, non un millimetro di più, non un millimetro di meno; e paf, era un centro senza fallo.

      I due testimoni di quelle prodezze lodavano senza risparmio. Ma il bravo capitano Dutolet non accettava le lodi. Non c’era niente da far maraviglia; un po’ di pratica; questione di esercitare le articolazioni a quel punto di arrivo in linea, i muscoli a quel grado di tensione, ecco tutto.

      – Ecco niente; – gridava il generale, con la sua voce di tuono. – Se non si trattasse che di esercizio, in tutti i giuochi tu riusciresti eccellente, mio caro. E allora come va che sei sempre una sbercia a carambolo? —

      Capitolo IV.

      La disputa filosofica

      Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L’abito talare scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero, riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che l’arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente al signor Camillo, il miscredente.

      Infatti, quell’anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon era vissuto tutt’altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent’anni. Si diceva dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il Rousseau e gli altri Enciclopedisti; desolazione della abominazione. Quella, s’intende, era la chiacchiera d’altri tempi, dei tempi in cui si voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all’altro rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa epigrafe: «Deo erexit Voltaire»; un po’ orgogliosa, per dire la verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti, restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto praticando la religione dei padri; e l’essere andato don Martino, arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che si fosse riconciliato all’ultim’ora. Se ciò fosse avvenuto, l’arciprete non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque… la conseguenza era facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell’anima, fors’anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le apparenze, per chi voleva contentarsene.

      Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo fratello maggiore; salvo, s’intende, lo studio sugli enciclopedisti. S’impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e così pensando, la presenza inaspettata dell’arciprete di San Giorgio al castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell’abito talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

      Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco, su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell’ingresso, accanto alla gradinata di marmo.

      – Venite qua voi a consolarci; – disse il generale, com’ebbe veduto Maurizio. – Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l’odore di scarafaggio? —

      Maurizio ebbe l’aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo interlocutore.

      – Già, – ripigliò il generale, – voi venite sempre dalle scorciatoie; se foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l’uomo nero che ci ha regalato un’ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno. Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di lasciargli queste quattr’ossa?.. Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non è vero, Dutolet?

      – Per quello che mi riguarda, – disse il capitano, senza neanche sorridere, – ci sarebbe troppo poco da rosicare.

      – Non dimentichiamo i diritti dell’ospite; – notò il generale, osservando che Maurizio era rimasto silenzioso. – Nè di politica nè di religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la civiltà; e le sue leggi van rispettate. —

      Maurizio vide allora la necessità di parlare.

      – Se è per me, generale, non vi date pensiero; – rispose. – Non mi fanno paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti della misura, della buona volontà, del rispetto.

      – Ah, mi levate un peso dal cuore! – gridò il generale. – In fede mia, non ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

      – Scusate, generale, ma allora…

      – Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera, quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

      – Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato d’emicrania.

      – È quello che dice mia moglie. V’intendereste benissimo con lei, almeno nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch’essa li può soffrire. Mio fratello l’ha educata bene, ed io non ho avuto da consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno educate alla colpa.

      – Ma