Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

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Название Le stragi delle Filipine
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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insorti delle società segrete del Lotus bianco e del Giglio d’acqua, si rovesciarono confusamente verso il grande fabbricato, urlando:

      – Morte agli spagnuoli!… Viva la libertà!…

      Hang-Tu, che li guidava, con un colpo di fucile aveva freddato la sentinella spagnuola, che si trovava dinanzi alla garretta, ancora prima che quel disgraziato soldato avesse avuto il tempo di dare l’allarme.

      A quel primo sparo, altri ne tennero dietro, ma piú collo scopo d’intimorire la popolazione che di fare, almeno pel momento, della vittime.

      I carabinieri tagalos, udendo quelle detonazioni, avevano dato di piglio alle armi e si erano affacciati alle finestre, gridando pure:

      – Morte agli spagnuoli!… Viva l’indipendenza della isole!

      Il tenente di picchetto Rodriguez, il solo ufficiale che in quel momento si trovava nel quartiere, si era slanciato verso la porta seguito da un sergente e da un caporale, spagnuoli, sperando di giungere in tempo per barricarla, ma una scarica li aveva stesi al suolo senza vita.

      Il primo colpo era riuscito. I ribelli irruppero nella caserma saccheggiando il magazzino della armi e della munizioni e rinforzati dai carabinieri tagali che avevano abbracciata la loro causa, attraversarono correndo il ponte, urlando sempre:

      – Morte agli spagnuoli!… Viva i tagalos!… Viva l’indipendenza!…

      La loro mossa era stata cosí rapida, che nessuno aveva osato arrestarli.

      Le guardie stesse del ponte erano fuggite precipitosamente al loro avvicinarsi, per non venire fatte inutilmente a pezzi.

      Occorrevano delle armi per fornire gli abitanti dei quartieri chinesi, tagali e malesi, che ne erano quasi sprovvisti; ma Hang-Tu sapeva che ve ne erano nella caserma della guardie civiche di Binondo e guidava gl’insorti verso quella parte.

      Sapeva già d’incontrare una seria resistenza, ma contava sull’audacia dei congiurati e sulla numerosa popolazione del sobborgo.

      L’assalto alla caserma era stato dato con vigore. Gl’insorti, guidati dal chinese e dai capi delle società segrete, aprirono un fuoco violento contro il quartiere, e contro la robusta porta che era stata prontamente chiusa e barricata.

      Sarebbe stato necessario qualche pezzo d’artiglieria per ottenere qualche risultato, ma il tempo mancava per disarmare i prahos malesi ancorati lungo la calata. Le truppe della Ciudad potevano giungere da un istante all’altro e prendere i ribelli fra due fuochi.

      Mentre riusciva vana la fucilata dei congiurati, cominciava a menar strage quella delle guardie civiche. Quei soldati, nascosti dietro le finestre, rispondevano con una grandine fitta di proiettili e senza esporsi ad alcun pericolo.

      Già parecchi insorti erano caduti, fra i quali qualche capo delle società segrete.

      Anche Hang-Tu, che combatteva arditamente alla testa dei suoi chinesi e dei gendarmi, incoraggiandoli colle parole e coll’esempio, aveva avuto l’ampio cappello di fibre di rotang attraversato da una palla, mentre un’altra, colpendolo di rimbalzo, gli aveva tracciato un solco sanguinoso sulla fronte.

      La partita era perduta. La guardia civica, invece di arrendersi, come avevano sperato gl’insorti, si preparava ad assalirli e per di piú sul ponte del Passig, si vedevano accorrere grossi drappelli di cacciatori.

      Bisognava pensare a salvarsi o prepararsi a morire vendendo cara la vita.

      Hang-Tu, furioso per quella ostinata resistenza, tre volte aveva tentato di dar fuco alla porta del quartiere gettandovi contro dei fasci di legna infiammata, ma era stato costretto a retrocedere. Stava per mettersi alla testa di un gruppo di animosi per tentare di dare la scalata alle finestre, quando si udirono alcuni insorti, forse i meno risoluti, gridare:

      – I cacciatori!… Fuggite!…

      I ribelli, udendo quelle grida e vedendo la guardia civica irrompere dalla porta che era stata rapidamente aperta e lanciarsi sulla via colle baionette calate, si sbandarono.

      Intorno ad Hang-Tu non erano rimasti che sessanta o settanta uomini, per lo piú carabinieri e pochi chinesi con una mezza dozzina di malesi.

      – A me, amici!… – urlò il capo delle società segrete. – Mostriamo agli spagnuoli ed ai vili che fuggono, come sanno morire gli insorti.

      Non erano piú in grado di tener testa alle guardie civiche che stavano per caricarli.

      Continuando la fucilata, si ritirarono nella vicina via dell’Assuncion che poteva, in caso di disfatta, offrire un rifugio attraverso il sobborgo del Tondo e si arrestarono sull’angolo, organizzando una disperata resistenza.

      Sfondarono rapidamente alcuni negozi e colle mobilie che si trovavano dentro improvvisarono una barricata abbastanza solida.

      Hang-Tu stava disponendo i suoi fedeli dietro a quei ripari, quando dall’opposta estremità della via scorse quattro cavalli bianchi di spuma, montati da tre uomini e da una fanciulla che aveva un grande mantello bianco svolazzante, avanzarsi di gran galoppo.

      Credendoli spagnoli, aveva già dato il comando di aprire fuoco su di loro, quando li riconobbe. Un vivo stupore si dipinse sul suo viso.

      – Romero!… – gridò.

      – Sí, Hang-Tu. – rispose il meticcio, che essendo innanzi a tutti, lo aveva raggiunto. – Sono io, e vengo a morire per l’indipendenza di Luzon.

      – Disgraziato!… ed io che credevo di salvarti!…

      – Silenzio, amico!… Qui si tratta di battersi bene e non di parlare.

      Era sceso da cavallo e si era lanciato sulla barricata col fucile in mano, gridando con voce tuonante

      – Coraggio fratelli!… Ci battiamo per la libertà!…

      Than-Kiú era pure giunta ed aveva messo piede a terra. Hang-Tu le era corso incontro. Il volto di quell’uomo, che era rimasto impassibile dinanzi alla morte, tradiva in quell’istante una mortale angoscia.

      – Anche tu qui, Than-Kiú! – balbettò egli.

      – L’ho seguíto, – rispose la chinese con voce tranquilla.

      – Ma qui si muore, mia povera Than-Kiú!

      Un pallido sorriso sfiorò le labbra della giovane.

      – Che importa, – disse. – Sarà piú felice il Fiore delle Perle che la Perla di Manilla.

      – Ma questo ritorno… mentre ti credevo in via per Salitran?…

      – Venivamo a dirti che le truppe accampate nelle provincie accorrevano per soffocare l’insurrezione della capitale. Siamo giunti troppo tardi, ma cosí voleva il destino.

      – Ed hai voluto seguire Romero?

      – Sí, Hang.

      Il chinese si terse alcune gocce di freddo sudore che gli bagnavano la fronte.

      – Povera Than-Kiú! – mormorò. – Confidiamo nel nostro valore e prepariamoci a morire da forti.

      – Non temo la morte, Hang, – rispose la giovane con energia. – Se le fredde ali del genio delle tombe mi toccassero, cadrò a fianco di lui e sarà la mia ultima felicità.

      – Si compia la volontà del tien (cielo), – disse il chinese con rassegnazione.

      Intanto le fucilate rombavano furiose fra le due fila di case. Le guardie civiche, che erano comandate dal colonnello Fierro, avevano preso posizione di fronte all’imboccatura della via, tirando contro la barricata, mentre le piú audaci cercavano di avvicinarsi di soppiatto, tenendosi presso le muraglie delle abitazioni.

      Gl’insorti però, quantunque fossero tre volte meno numerosi, resistevano tenacemente, respingendo i primi tentativi d’assalto con scariche nutrite.

      Romero, che in quel momento pareva avesse dimenticato tutto, perfino la Perla di Manilla, sfidava intrepidamente la morte. Ritto su di un banco, con gli occhi sfavillanti d’audacia, pieno d’entusiasmo, faceva fuoco quasi senza interruzione, gridando:

      – Viva