Название | Il Volto della Follia |
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Автор произведения | Блейк Пирс |
Жанр | Современные детективы |
Серия | Un Thriller di Zoe Prime |
Издательство | Современные детективы |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9781094342733 |
“Parlami dei tuoi programmi,” disse la dottoressa Monk. Aveva la inclinato la testa, appoggiandola a una mano, e stava studiando attentamente la sua paziente. Zoe non aveva potuto fare a meno di notare che il suo taccuino era rimasto chiuso per tutta la durata della seduta, e la penna penzolava pigramente tra le sue dita.
“Farò qualcosa che non ho mai fatto prima,” rispose Zoe, avvertendo un leggero rossore sulle guance per l’emozione. “Un’uscita a quattro. Io e John, insieme a Shelley e suo marito.”
“Ritieni di non essere in grado di cavartela in una situazione del genere?”
“Sì.” Zoe annuì, consapevole che fosse proprio quella la verità. Non soltanto per l’aiuto ricevuto dalla dottoressa Monk, ma anche perché era finalmente arrivata a fidarsi di John dopo essere uscita con lui per mesi. Shelley, la sua collega, aveva anche dimostrato più e più volte di poter supportare Zoe ogni volta che ne avesse bisogno. “Gli esercizi che mi ha insegnato stanno tenendo a bada i numeri. Non credo che ne verrò travolta. Non stavolta.”
Le labbra della dottoressa Monk si sollevarono leggermente mentre Zoe parlava, come se avesse sentito qualcosa che l’aveva resa estremamente felice. Aveva un neo di bellezza un centimetro sopra il lato destro della sua bocca, e anche quello saltò su. Con un gesto plateale, posò il taccuino sulla scrivania, sistemandovi sopra ordinatamente la penna. “Zoe, sto per dirti una cosa, e ti prego di non prenderla nel verso sbagliato,” disse. La sua espressione era colma di gioia repressa, come se non volesse mostrare quanto fosse felice. “Credo che sia giunto il momento di smettere di vederci.”
Zoe inarcò un sopracciglio. “Crede che dovrei andare da un altro terapista?”
La dottoressa Monk scoppiò a ridere. “No, Zoe. Cosa ti ho appena detto a proposito di non prenderla nel verso sbagliato? Credo che tu non ne abbia proprio più bisogno.”
“Abbiamo… abbiamo finito?”
La dottoressa Monk le rivolse un cenno di conferma. “Non hai più bisogno di me.”
Zoe guardò la stanza che la dottoressa Monk usava per le sedute di terapia: i certificati incorniciati in legno nero sulle pareti, le mensole piene di libri di psicologia, il vaso con la pianta nell’angolo. Venne colpita da un’improvvisa fitta di nostalgia, una cosa che non provava spesso: in fin dei conti era lavorava nell’FBI, e non trascorreva troppo tempo in un luogo prima che il caso fosse risolto. Invece quella era la sensazione di andar via definitivamente. “E se ricominciassi a perdere il controllo?”
La dottoressa Monk si sporse in avanti, mettendo la propria mano su quella di Zoe, che era posata sul bracciolo della poltrona. “Se mai dovessi aver bisogno nuovamente di me, ti basterà chiamare e fissare un appuntamento. Sarai sempre sulla lista dei miei pazienti. Ma questa è la nostra ultima seduta ordinaria.”
Zoe annuì, lasciandosi travolgere da quella consapevolezza. Aveva finito con la terapia. Non ne aveva più bisogno. Si era seduta per molti mesi su questa poltrona e si era impegnata moltissimo per cercare di cambiare. Sentirsi dire che, alla fine, ne era uscita vittoriosa, in realtà era soltanto una conferma. Nel profondo, sapeva di aver avuto la meglio sugli aspetti più aspri della propria mente; li aveva domati, ammaestrati.
Rivolse nuovamente un’occhiata alla stanza, un piccolo test di autodiagnosi. I numeri erano ancora lì, ogni volta che lo desiderava. Riuscì a capire a colpo d’occhio che c’era un libro in meno sulle mensole: forse la dottoressa Monk lo aveva preso per leggerlo o lo aveva prestato a qualcuno perché lo studiasse. Sapeva che le librerie erano alte due metri e tredici centimetri, e che con ogni probabilità la dottoressa Monk doveva salire su qualcosa per raggiungere i volumi riposti più in alto.
Ma quando guardò di nuovo, stavolta concentrandosi per restare calma, vide soltanto una libreria con molti libri. Proprio come chiunque altro.
Avvertì le proprie labbra sollevarsi automaticamente. Un sorriso, sincero e naturale, qualcosa che faceva raramente. Si sentiva più forte che mai. O meglio, si sentiva più pronta per qualsiasi cosa si fosse presentata sul suo cammino.
“Grazie, dottoressa Monk,” disse, alzandosi e porgendole una mano.
La dottoressa la accolse, stringendola più forte per un istante e sfoggiando un sorriso colmo d’orgoglio, quindi l’accompagnò alla porta.
“La prego di non prenderla nel verso sbagliato,” disse scherzosamente Zoe mentre apriva la porta. “Ma spero di non doverla rivedere per molto tempo.”
La dottoressa Monk le rivolse un luminoso sorriso. “Idem,” disse, chiudendo la porta con una risata.
Zoe raddrizzò le spalle. Le vittorie personali andavano festeggiate. Quindi era un bene che avesse un posto speciale in cui andare.
Zoe bussò a un’altra porta, diverse ore più tardi e in una zona diversa della città. Nonostante le parole di supporto della dottoressa Monk, adesso si sentiva nervosa e agitata, e all’apparenza le sue mani non volevano saperne di restare ferme. Continuava a contorcere il manico della borsa tra le mani, attorcigliando il sottile nastrino in un verso e poi nell’altro.
Il corpo ancora magro della dottoressa Francesca Applewhite era avvolto in una comoda vestaglia, e i capelli scuri e striati di grigio del suo ordinato caschetto si mossero dapprima verso l’alto e poi verso il basso mentre squadrava Zoe dalla testa ai piedi. “Zoe,” disse, cercando palesemente di scegliere con cura le proprie parole. “Non ti aspettavo. Sei incantevole. Ma, ehi… cos’hai fatto agli occhi?”
Zoe fece una smorfia e abbassò lo sguardo. Sapeva di non esserci riuscita. “Mi serve il suo aiuto,” disse tristemente.
La dottoressa Applewhite fece subito un passo avanti, prendendola per il gomito. “Certo, mia cara. Entra, entra pure.”
Zoe seguì la propria beneamata mentore nella sua confortevole casa. Le pareti del corridoio erano tappezzate di risultati incorniciati: sia la dottoressa Applewhite che suo marito erano professionisti affermati, e sebbene non avessero mai avuto figli, gli attestati e i premi parlavano di carriere accademiche e vite vissute al servizio della ricerca.
“Non l’ho mai fatto prima d’ora,” piagnucolò Zoe, odiando quel suo stesso tono di voce così sconfitto e acuto. “Pensavo fosse più facile. Ho guardato dei tutorial su YouTube per capire come fare, ma …”.
La dottoressa Applewhite si fermò, voltandosi per mettere una mano sulla spalla di Zoe mentre la guidava in direzione del bagno. “Non preoccuparti. È una cosa semplice. Ti darò una sistemata. Serata importante, eh?”
“Serata romantica,” disse Zoe, sentendosi già meglio all’idea di ricevere aiuto dall’unica persona che c’era sempre stata quando lei ne aveva avuto bisogno.
Nonostante non fosse proprio l’unica. Conosceva Shelley da un tempo relativamente breve rispetto alla dottoressa Applewhite, ma anche lei non l’aveva mai delusa. Anche quando Zoe si era infuriata con la sua partner per delle presunte mancanze di rispetto, in seguito aveva sempre dovuto ammettere quanto fossero giuste la scelte compiute da Shelley. Qualche mese fa, quando avevano lavorato insieme per catturare un serial killer che prendeva di mira le persone che avevano tatuaggi commemorativi dell’Olocausto, Shelley si era fidata della scelta di Zoe di concentrare tutte le risorse a loro disposizione nella ricerca dell’assassino, nonostante avessero già un sospettato in custodia. Aveva funzionato, e adesso erano più in sintonia che mai, agendo istintivamente per risolvere i loro casi e fidandosi tacitamente l’una dell’altra.
A pensarci bene, anche John non l’aveva mai delusa. Era sempre il primo a presentarsi, spesso restando ad aspettarla. Non si era mai sentito frustrato né si era arrabbiato tutte le volte in cui Zoe aveva dovuto annullare un appuntamento perché era stata richiamata in servizio dall’altra parte del paese, anche quando questo capitava all’ultimo