Название | Strada senza uscita. Storia di due amori e un’amicizia |
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Автор произведения | Роберто Борзеллино |
Жанр | Драматургия |
Серия | |
Издательство | Драматургия |
Год выпуска | 0 |
isbn | 9785449318398 |
Роберто Борзеллино
© Роберто Борзеллино, 2018
ISBN 978-5-4493-1839-8
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Storia di due amori e un’amicizia
Seconda edizione 2016
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Copyright © 2015 Roberto Borzellino
Quando nel dolore si terrà compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze.
Questo romanzo è dedicato ad Alessia Marinetto per essermi stata sempre vicina in tutti questi anni difficili …
CAPITOLO PRIMO – IL RISVEGLIO
Un rumore sordo e di colpo aprii gli occhi, un frenetico brusio arrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre. Forse stavo ancora sognando o era solo la mia mente che rifiutava il risveglio e s’inventava strane situazioni per farmi capire che era meglio rimettersi a dormire. Fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito: a quel tempo, in quelle condizioni, non avevo certamente il lusso di potermi riaddormentare. Potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e prepararmi un buon caffè. Già il caffè, ma mentre cercavo di ricordare in quale direzione andare, sentivo ancora quelle voci giungere dalla strada, i toni diventare sempre più accesi, acuti; ecco, ora le distinguevo bene, sembravano due donne che litigavano in strada, magari per contendersi le attenzioni di un amante, oppure erano delle semplici automobiliste distratte, che litigavano per la precedenza allo stop.
Con questo pensiero nella testa, svogliatamente, mi alzai dal letto e con lo sguardo cercai le pantofole: “Ah, eccone una e l’altra, quella maledetta, dove sarà finita?”, probabilmente sarà nascosta da qualche parte, magari sarà finita sotto a un mobile o più probabilmente sarà sotto al letto, in profondità, lì dove è più difficile raggiungerla, se non con l’aiuto di un bastone per tirarla via. Quella mattina il mio risveglio era stato interrotto bruscamente e certamente non aveva contribuito a migliorare il mio cattivo umore. Seduto sul lato destro del letto, coi i piedi nudi sul pavimento, un piccolo brivido di freddo mi diede la scossa e mi fece alzare bruscamente, mentre il pensiero del caffè”, con prepotenza, si era già fatto strada nella mia mente. Con una sola pantofola ai piedi, ciondolando come un vecchio zoppo, mi diressi verso la cucina mentre dalla strada, stranamente, non sentii più giungere alcuna voce.
Uno strano silenzio sembrava essersi impossessato dell’intero quartiere; non un lamento giungeva alle mie orecchie, come se tutt’intorno ogni rumore fosse improvvisamente ovattato. Istintivamente posai il mio sguardo sul grande orologio bianco appeso in alto, al centro del muro che, con le sue lancette nere, mi avvertiva che mancavano pochi minuti alle sette di mattina. Controvoglia mi affacciai alla finestra, facendo attenzione a spostare delicatamente la tendina per evitare di essere riconosciuto; abitavo pur sempre al primo piano e non era difficile notare il mio bel faccione italiano. La curiosità aveva preso il sopravvento e con lo sguardo cercai di individuare le due donne che quella mattina, con tanto frastuono, mi avevano inopportunamente sottratto al piacevole abbraccio di Morfeo.
La mia sorpresa fu grande: la strada era vuota, deserta e potei notare solo qualche ombra che si allontanava camminando velocemente, probabilmente per raggiungere la fermata del tram dall’altra parte del cortile. “Dove saranno finite quelle due matte” – ripetevo tra me e me – mentre il caffè espresso, con il suo profumo, aveva già inebriato tutta la cucina. Fu solo al primo sorso che mi sentii completamente sveglio e rinato; solo adesso cominciavo a capire perché non riuscivo a tradurre quelle frasi, quelle parole dall’accento così strano e tutto rapidamente divenne chiaro. Quelle donne parlavano in russo.
Ero a mille chilometri da casa, in un luogo lontano, sperduto, tra palazzoni di periferia tutti uguali, che potevo distinguere tra loro solo dal tono sfumato dei colori sulle facciate dei muri, che il tempo e il freddo dei gelidi inverni avevano sbiadito.
Ero seduto in cucina, con la tazzina del caffè ancora in mano e una profonda malinconia mi prendeva alla gola, mi stringeva al petto. Mi guardavo intorno ed ero circondato dalla carta da parati; ogni stanza di quell’appartamento era tappezzata da disegni orrendi, con colori appena abbozzati di un giallo tenue, senza nessuna grazia, classe o bellezza.
Sembrava che il tempo si fosse improvvisamente fermato agli anni sessanta e li fosse rimasto, immobile, legato profondamente al passato comunista. Solo adesso i miei ricordi riaffioravano prepotentemente e mille pensieri si affollavano feroci nella mia mente. Ero a Minsk in Bielorussia.
Ma perché ero finito in quel posto così lontano?”, “Cosa mi aveva spinto a partire e lasciare ogni cosa, i parenti, gli amici, un figlio?”.
Con lo sguardo perso sul fondo della tazzina seguivo una piccola goccia di caffè che scivolava lentamente lungo i bordi e all’improvviso vedevo scorrere davanti a me, come in un film, il fallimento di tutta una vita. Fin da piccolo avevo avuto un sogno da realizzare, un traguardo che già allora mi sembrava impossibile da raggiungere, come la vetta dell’Himalaya; già all’epoca mi sentivo fuori dal coro e alla classica domanda di genitori e parenti: “Cosa vuoi fare da grande?”, non rispondevo nel modo che tutti si aspettavano – da grande farò l’avvocato, il medico o l’ingegnere – ma, meno banalmente e con un misto di ingenuità e coraggio, rispondevo: “da grande farò lo scrittore di romanzi, per raccontare storie e inventare sempre nuovi personaggi”.
Non credevo di essere più intelligente dei ragazzi della mia età ma sentivo il desiderio di fare qualcosa di diverso dal “normale”, qualcosa per cui credevo di avere talento – scrivere libri – e questo per me era stato chiaro fin da subito.
Già in seconda elementare non erano sufficienti quattro pagine di quaderno per finire i temi d’italiano e, molto spesso, dopo aver ricevuto un bel dieci, venivo “costretto” dalla maestra a fare il giro delle altre classi dove, con mio grande disappunto e con un pizzico di vergogna, dovevo leggere quelle pagine, scandendo bene ogni frase ad alta voce affinché tutti potessero ascoltare i miei pensieri, le mie fantasie, i miei personaggi inventati.
Questa procedura si era ripetuta già troppe volte durante i miei primi anni di scuola e sentivo crescere dentro di me la ribellione e il fastidio di dover fare ogni volta tutti quei giri, andando di classe in classe. Sempre più spesso cercavo, con le scuse più varie e fantasiose, di sottrarmi a quella “tortura”, a quella violenza quasi fisica, ma non sempre ci riuscii. Dal confabulare delle maestre percepivo la loro ammirazione ed il loro stupore, mentre per me sembrava tutto eccessivo, quasi folle. All’epoca non si capacitavano di come un minuscolo bambino potesse esprimere così tanta energia espressiva, avere così tanta immaginazione e, cosa ancora più sconcertante per loro, non commettere alcun errore grammaticale.
Inutile dire che le prime volte avevo provato un grande senso di felicità e orgoglio, soprattutto pensando a mia madre, perché potevo raccontarle fin nei minimi particolari dell’esperienza vissuta a scuola e mostrarle il bel dieci stampato a penna sul fondo del foglio. In quelle occasioni potevo leggere sul suo volto tutta la sua gioia, come se dicesse con gli occhi “ho partorito un genio”. Ma con il tempo tutto divenne più difficile e complicato da sopportare, non ero certo il tipo di ragazzino a cui piaceva mettersi in mostra e se l’essere il primo della classe aveva accresciuto la mia “fama” con le ragazzine, dall’altro cominciavo a sentire il peso di dover essere sempre “all’altezza della situazione”, comporre e scrivere temi originali e, soprattutto, senza errori.
Purtroppo,