Tra cielo e terra: Romanzo. Barrili Anton Giulio

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Название Tra cielo e terra: Romanzo
Автор произведения Barrili Anton Giulio
Жанр Зарубежная классика
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Издательство Зарубежная классика
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Tra cielo e terra: Romanzo

A FRANCESCO BERLINGIERI

      Venendo a Te, per dedicarti il mio libro, penso ad una tua bella fantasia giovanile, «Un frate che minia la Divina Commedia»; povero frate che tu hai lasciato senza compagni, mutando il suo buon codice membranaceo nei codici moderni del patrio diritto; povero frate, per cui l’arte aveva ancora «sorrisi e fascini», ma più assai la giovane natura, parlante a lui l’onnipossente linguaggio da quelle stesse pagine ch’egli andava infiorando con le belle immagini fantasiose, ridenti d’italica primavera al genio di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese. Deposti i pennelli, poggiata la faccia sulla palma della mano, pensa il povero frate, con gli occhi rivolti al poema del profugo Fiorentino «a cui temprâr l’ingegno – e l’amore e lo sdegno». O frate, tu gli hai detto, ammonendolo:

      O frate, a lui l’esilio

      E le pugne dell’alma:

      A te l’obblìo degli uomini

      E la cristiana calma.

      Perchè t’alzi a colloquio

      Col Ghibellin? tu piega

      La queta fronte, e prega.

      Ma sì, tardi consigli, come sono su per giù tutti i consigli dell’esperienza! Il male è fatto: il tuo monaco ha riletto dianzi quel diabolico canto V dell’Inferno, donde scoppia tanta passione umana, e dilaga e straripa. Quei due maravigliosi dannati raccontano anche così bene!

      Per più fiate gli occhi ci sospinse

      Quella lettura e scolorocci il viso:

      Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

      Povero frate! Satana gli ha dato l’esca. Che ardori nel suo sangue! che visioni nella sua cella! I giorni felici si ripresentano alla sua mente, con immagini e fragranze di baci; la gioventù lo chiama, la terra lo invita; il rimorso lo turba, e il cielo dimenticato un istante gli ridipinge agli occhi la scena terribile dei sicuri castighi. No, non più affetti terreni, non ribellioni, non fughe.

      Dio, mi salva dal dèmone

      Che tutto mi possiede!

      Di macere vigilie

      Rinforzerò la fede.

      Nè più profane pagine

      Avran su me l’impero!

      Io minierò il Saltero.

      L’uomo antico era ricomparso tra le mortificazioni dell’asceta; ma l’asceta ha riconosciuto il tentatore, ha resistito, ha vinto. Così tu, fantasticando davanti alle rovine di un vecchio convento, che l’anima tua ripopolava «di larve incappucciate», hai rievocato un momento tipico della vita passata, o, per dire più veramente, hai intravveduto nella vita passata un lampo della coscienza eterna, dell’eterno dissidio e del vincolo eterno tra la terra ed il cielo.

      Ho il mio frate ancor io. Non minia, pur troppo: parla il linguaggio aspro e nondimeno attraente che molti ascoltano tuttavia, che molti ascolteranno ancora dopo di noi, perchè tra forme mortali e transitorie reca sempre la nota della immortale verità non mai intieramente chiarita, della immortale domanda non mai pienamente soddisfatta. Egli è voce e coscienza d’una religione storica, che in mezzo a tante cure mondane onde fu troppo infrascata nei secoli scorsi ed è ancora afflitta nel nostro, è pur bastata a dare un corpo di dottrine morali purissime, suggellate dal bel principio in uno stupendo esemplare di dolcezza e di grazia, di virtù, di mansuetudine, di sacrifizio sublime, parlante dalla montagna al popolo di Tiberiade, disputante coi dottori della legge nel tempio di Gerusalemme, odiato ugualmente da Scribi e da Farisei (specie non morta ancora), ugualmente franteso da Giudei e da Romani, dagli uni e dagli altri condannato nella doppia sentenza del sinedrio e del pretorio, epicamente grande nel supplizio del Golgota, redivivo e trionfante nella fede degli umili come promessa infallibile di ricompense celesti, presente in ispirito e in verità dovunque si soffre, dovunque si procede, dovunque si spera di giungere ad una meta, commensale divino degl’infelici, rompente con paterno amore ai pellegrini di Emaus quel pane quotidiano, che a tanti figli d’Adamo sèguita sempre a mancare. Triste cosa, non è vero? e si può bene rimpiangere che i seguaci si siano allontanati di tanto dall’esemplare maraviglioso; riuscendo agli onori del trionfo per collegarsi tosto a mutua difesa coi potenti della terra; non dando ai miseri altro aiuto fuor che di buone parole; sognando per sè l’impero del mondo, ed ottenendo per via da tutti i monarchi, alternamente combattuti e favoriti, uno scampolo di territorio per le loro famiglie, nella patria divisa, assoggettata e tradita. Ma gli errori degli uomini nel corso dei secoli, ed oggi le ineluttabili ragioni della difesa civile, non ci faranno dimenticare il buon principio essenziale di quella religione, che ha pure educato nei cuori il sentimento del divino, prendendolo ovunque le fu dato rintracciarlo, germe prezioso e fecondo, tra la scoria delle superstizioni volgari e tra le perle della filosofia antica, tra i dubbî della scuola e gli stupori della piazza, tra i foschi terrori e le serene speranze di settantaquattro generazioni. E chi sa? l’istesso mio frate, un po’ incalzato e stretto al muro da chi avesse avuto più tempo per ciò, si sarebbe licenziato a parlare più liberamente che non solesse fare dal pergamo ai fedeli cristiani di San Giorgio. Credete in Dio, avrebbe detto, credete in un Dio giusto e buono, come causa prima dell’universo; osservate la legge morale, com’ella per volontà di lui si è rivelata alle genti: praticato il rispetto, l’amore, la carità nel mondo, e lasciate al tempo la cura del resto. Molte foglie cadono ogni autunno dall’albero; molti rami secchi al peso delle nevi invernali, all’azione dei geli, al soffio della tramontana si spezzano: ciò che è vitale, vivrà.

      Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con arte degna del tema. L’ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature condotte dal destino all’aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere: ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre considerazioni.

      La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando. Spero anch’io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i godimenti dell’essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di Luigi XV: «après moi le déluge»; mentre lo stesso fondamento della società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono. Nel modo di vivere, di sentire, d’intendere, di curare la conservazione delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche, principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci pensare! Così la famiglia si disunisce, un po’ per debolezza sua, molto per colpa de’ suoi capi, che non l’hanno più per santuario, come gente civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L’uomo va per un verso, e la donna per l’altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz’ombra d’idee.

      Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi della famiglia, dai capi della società, donde l’autorità deriva, donde gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private, senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori. Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che